Dalla rassegna stampa Danza

Giselle tribale

… con un Siegfried gay dichiarato che danza nel sobborgo di Soweto tra i fantasmi dell’Aids…

Giselle tribale

Alessandra Troncana

Piedi nudi, testa rasata e camicetta slacciata, l’ultima eroina romantica ha rinunciato alle punte di raso: Giselle danza scalza e furiosa con un abito rosso porpora e il suo seguito di villi spettinate che brandiscono frustini (seppur con grazia).

Madri ubriacone e violente, principi fedifraghi presi a cinghiate, cigni zulù, tensione sovraeccitata, scontri carnali e una trama brusca e caotica tessuta sullo sfondo della campagna africana (disegnata dal semi-dio William Kentridge): la contadinella cardiopatica e incipriata di certe coreografie che odorano di naftalina è diventata una cattiva ragazza posseduta dal ritmo tribale.

Con la sua Giselle, Dada Masilo — la spregiudicata e veneratissima coreografa sudafricana — ha sedotto persino gli intransigenti del balletto classico: martedì, porta il suo capolavoro al Grande (alle 20.30: i biglietti a teatro, sui siti vivaticket.it e teatrogrande.it o nelle filiali Ubi in città e provincia). Come nella sua Carmen black e fatale o nel Lago dei Cigni con un Siegfried gay dichiarato che danza nel sobborgo di Soweto tra i fantasmi dell’Aids, anche stavolta Masilo provoca, seduce, percuote e infonde accezioni contemporanee al racconto. Una rivoluzione che include il secondo atto — da bianco diventa rosso porpora—, le Villi — maschi e femmine — la musica di Philip Miller, un battito elettronico e carnale che cita, deformandola con il ritmo africano,la partitura soave e drammatica di Adolph Adam.

Questa volta, niente perdono cristiano per il traditore Albrecht. Lei ha guardato la storia dal punto di vista della donna tradita. E nella sua eroina molti vedono una femminista.

«Ho guardato il lavoro da un punto di vista narrativo e non come se dovessi farlo sembrare bello e tecnicamente perfetto. La narrazione è chiara. Volevo raccontare la storia, una storia in verità piuttosto triste e straziante. La parola femminista sta iniziando a infastidirmi sempre di più perché ora, nel 2018, è diventato il sinonimo di donne che odiano gli uomini. Non è questo il caso: sto solo reagendo alla narrazione che ho letto. E ancora, non credo che Albrecht debba essere perdonato dalle Villi».

Il suo è un linguaggio diretto, violento, passionale, contaminato con le sue origini africane, carico di messaggi sociali e nutrito di influenze diverse. Come riesce a trovare un equilibrio tra tanti codici?

«Sono influenzata da ciò che accade intorno a me. Non vivo in una fiaba. La violenza, la passione, l’odio, la gioia, la vulnerabilità, l’ansia sono molto tangibili. Li vivo tutti i giorni. È tutto reale, ed è quello che voglio portare al mio lavoro. Quanto all’equilibrio, credo si raggiunga nella fusione delle tecniche di danza. Adoro ascoltare la musica classica, ma poi la realtà di Johannesburg mi riporta sempre indietro!»

Quali aspetti del balletto classico consi dera superati?

«Penso che in quest’epoca sia obsoleto cercare di essere “perfetti” sul palco. Personalmente, voglio commuovermi! Sono molto felice di vedere la finezza tecnica in studio. La tecnica è grande sì, ma non dovremmo esserne schiavi».


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