Ecco “Le cose di prima” abbandono e resistenza nel romanzo di Savarese
Nel cuore del nuovo romanzo di Eduardo Savarese, “Le cose di prima”, vibra in una frase portatrice di verità dure, incontestabili, amare, e verissime. «Arrivava sempre il momento in cui il suo compagno di conversazione, come se avesse terminato la dose di ossigeno disponibile, voleva fuggire via». Di fronte alla disabilità e nei confronti della malattia c’è chi scappa, si sente a disagio, ammutolisce, cambia radicalmente il proprio modo di essere o forse manifesta davvero chi è. Non è una colpa, ma un dato di fatto.
In ogni caso è ancor più doloroso se a sottrarsi è il padre che ha deciso di non voler più stare vicino al figlio colpito da distrofia muscolare, costretto su una sedia a rotelle. Il protagonista è Simeone, un adolescente che vive a Napoli con sua madre Elide, una donna che si attiva e affronta il futuro quando al figlio diagnosticano la distrofia, mentre il padre, Thomas, un ingegnere della Nato, di origini austriache e siriane (appartenente alla comunità cristiana dove si parla l’aramaico) si chiude in sé, inizia un percorso di dialogo con le sacre scritture, interroga Dio e il suo silenzio, parte per la Siria, va verso Maalula, la terra delle proprie radici, diventando un fantasma sempre presente. L’abbandono del padre è un’ulteriore piaga, enorme, inconcepibile, un’assenza biblica, eppure Simeone affronta la vita con un carattere vivo, combattivo, ha le sue domande, le sue ostinazioni e provocazioni, fa lezioni di canto, studia la fisica, disegna, battibecca di continuo con Elide che ha annullato sé stessa per il figlio, e con Pierotta, l’amica che quando piomba in casa all’improvviso porta gioia, per poi sprofondare in stati catatonici, depressivi, sfiorando il suicidio. Savarese, senza cadere mai nel “dolorismo”, senza eccessi o forzature, sulla scia di due grandi esempi, “Nati due volte” di Pontiggia e il Forest di “Tutti i bambini tranne uno”, restituisce la vita vera, di ogni giorno, quella faticosa e stremante in cui l’apparire momentaneo della felicità può davvero far dimenticare tutto per pochi istanti; e lo fa in un romanzo che ricalca la struttura di un dramma lirico diviso in parti e scene. Simeone è il tenore, la madre il contralto, ognuno ha il suo canto per modulare i propri giorni di resistenza e lotta, dimostrando che anche con l’avanzare spietato, degenerativo, l’uomo non è la sua malattia. Nel romanzo ci sono intermezzi, parti in cui Simeone, con il suo account Facebook discute con professori e scienziati nel gruppo #FisiciSparsi, parlano di effetti quantistici delle particelle confinate in spazi molto ridotti, e qual è la reazione in quella loro nuova condizione. La fisica diventa così un tracciato su cui cercare di individuare risposte alla proprie domande, intanto rimbomba sempre più forte il suono dell’assenza del padre, in Simeone aumenta la consapevolezza che il futuro si sta riducendo, ma lotta, vuole rivedere l’uomo che si è rifugiato in Medio Oriente per sfuggire alle proprie debolezze. E partirà per ritrovarlo, viaggio che sarà come la traversata nel deserto in cui si conosce se stessi. La letteratura per Savarese, dopo “Le inutili vergogne” e il pamphlet “Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma” con cui aveva affrontato il rapporto tra sessualità e fede, si conferma il terreno dove si deve continuare a ragionare sulle questioni civili, interrogarsi e scottarsi senza ipocrisie, per guardare in faccia ferite aperte che riguardano tutti.
Pier Luigi Razzano