Dalla rassegna stampa Cinema

La Storia va in Mostra

VENEZIA 2018 OGGI L’INAUGURAZIONE CON RYAN GOSLING NEI PANNI DI ARMSTRONG, PRIMO UOMO SULLA LUNA
La Storia va in Mostra
La Corte inglese, una saga tedesca, l’Isis: vince la realtà tra passato e presente

Da Leigh a Schnabel tanti film in costume

Stefania Ulivi

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI

VENEZIA La Storia e le storie. Se c’è un filo rosso che tiene insieme un’edizione ricchissima di opere e protagonisti come Venezia 75 al via stasera, è quello della realtà. Il passato e il presente. Le opere in costume e quelle che raccontano l’oggi. Gli uomini e le donne che hanno fatto la storia e quelli che l’hanno subita. Coloro che hanno fatto l’impresa come Neil Armstrong, primo uomo sulla Luna il 20 luglio 1969, quel Ryan Gosling che Damien Chazelle nel film d’apertura First Man inizia a raccontare quando ancora la meta sembrava lontanissima. Persone capaci di portare morte e distruzione come Anders Breivik, l’estremista di destra responsabile delle bombe a Oslo e della strage di Utøya nel 2011, al centro di 22 July di Paul Greengrass. O i protagonisti del documentario Isis, Tomorrow di Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi. Corpi trasfigurati in una morte che interroga un intero Paese, come quello di Stefano Cucchi a cui Alessandro Borghi regala dolore e verità in Sulla mia pelle di Alessio Cremonini.

È tratta da un mosaico di storie vere, mescolate a quelle di finzione, quest’edizione del festival. Difficile citarle tutte.

Mario Martone in Capri-Revolution racconta illusioni e l’ansia di libertà all’alba del primo conflitto mondiale, seguendo i passi della pastorella Lucia nel suo percorso di riscatto femminile, nato dall’incontro con un gruppo di artisti che si ispira alla comune creata sull’isola dal pittore Karl Diefenbach all’inizio del Novecento. Affresco storico d’autore anche per Yorgos Lanthimos che in The Favourite incastona segreti e bugie tra il 1702 e il 1707: mentre l’Inghilterra è in guerra con la Francia, alla corte della regina Anna (Olivia Colman) si scatena il conflitto tra due cortigiane, la duchessa di Marlborough (Rachel Weisz) e la giovane Abigail (Emma Stone). E per Mike Leigh che in Peterloo fa luce su uno dei più atroci massacri di civili, quello del 1819 a Manchester, che offusca la fama della democrazia britannica. Mentre László Nemes in Sunset, ambientato nella Budapest del 1913, si focalizza sul declino dell’impero austro-ungarico.

L’America di ieri con l’incredibile vicenda del dottor Wallace Fiennes, pioniere di esperimenti di elettroshock e lobotomia a cui sottopose anche Rosemary Kennedy, sorella dei presidenti John e Bob, in The Mountain di Rick Alverson; o il ritratto delle ragazze di Manson in Charlie Says di Mary Harron. E quella di oggi che — tra speranze e indignazione della comunità afroamericana di New Orleans — Roberto Minervini racconta in What you gonna do when the world’s on fire? Pesca ancora da fatti realmente accaduti il tedesco Florian Henckel von Donnersmarck e tra le vite degli altri usa quella dell’artista Kurt Barnert (Tom Schilling) per interrogarsi sul senso dell’arte e sulle ferite del suo Paese in Opera senza autore. Julian Schnabel dipinge vita e opere di Van Gogh con il volto di Willem Dafoe in At Eternity’s Gate, mentre Roberto Andò costruisce un giallo (Storia senza nome) intorno al Caravaggio rubato a Palermo nel 1969. Emir Kusturica arriverà accompagnato da Pepe Mujica, interprete del suo El pepe, una vida suprema. Ma dell’ex presidente dell’Uruguay, della sua prigionia nel 1972, parla La Noche de 12 Años di Álvaro Brechner. Ancora, il russo Sergei Loznitsa in Process affronta la tragedia delle purghe staliniane. Si torna in Italia con 1938 diversi di Giorgio Treves sulle leggi razziali. Anche se il film che più parla del nostro presente sembra American Dharma: Errol Morris intervista il suo ex compagno di università Steve Bannon, l’ex stratega di Trump sostenitore della Lega di Salvini.

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La «carne» dei festival: qualità senza eccessi del marketing

di Paolo Mereghetti

Che cosa ci aspettiamo da questa settantacinquesima Mostra? Ovvio: dei bei film. Ma non solo. Soprattutto vorremmo (auspicheremmo) che Venezia aiutasse a rimettere in carreggiata l’idea stessa di festival, uscita malconcia dalle polemiche e dagli «aggiustamenti» mediatici degli ultimi anni. Non dico che bisogna tornare al rigore «chiariniano» degli anni Cinquanta, ma ricordare (anche a certi polemisti) che prima dei tappeti rossi, delle star, degli equilibri di genere e di nazionalità, della difesa delle quote o dell’orgoglio nazionale deve venire la capacità di selezionare il meglio e il più rappresentativo. Del cinema, beninteso, e non della pubblicità o del marketing. Per parlare fuori dai denti, vorrei dire che negli ultimi anni, sotto la pressione degli sponsor (necessari, per carità) e dei mass media (le televisioni in primis), ai festival sembrava di dover giudicare tutto meno che la qualità delle opere selezionate. C’è chi privilegiava il discorso politico, chi il discorso promozionale, chi quello mondano, chi il discorso tout court. E i film? Viene in mente un vecchio spot americano dove una vecchietta doveva scegliere tra vari tipi di hamburger: i produttori magnificavano la fragranza del pane, la freschezza dell’insalata, la sapidità delle salse. Ma poi la vecchietta chiedeva: «Where is the beef?». Dov’è la carne? Ecco, la speranza è che Venezia aiuti a rimettere a fuoco l’obiettivo per guardare dritto alla «carne» del festival, nato (come tutti) per ragioni promozionali o propagandistiche ma poi cresciuto e affermatosi come luogo privilegiato di confronto e riflessione sul cinema. Anche prima di vedere i film in concorso è chiaro che, vista la lunghezza e la complessità delle trame, lo storytelling mutuato dalle serie televisive sia diventato un elemento centrale. L’altro punto fermo è la centralità, per i soggetti, dei fatti della Storia, anzi della Grande Storia (almeno sei film partono da lì: Leigh, Lanthimos, Nemes, Martone, von Donnersmarch e Greengrass. E probabilmente anche Minervini). Ma quello che ci si deve aspettare da un festival come Venezia è il modo in cui quelle complessità e quei soggetti sono affrontati, se lo sguardo del regista è mosso da un’autentica originalità e necessità, dalla voglia di esplorare e non solo di illustrare. È questo il cinema, ed è questo quello che ci aspettiamo da Venezia.

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