Dalla rassegna stampa Cinema

Cannes (le stelle di Mereghetti) - Emozioni non scontate

Emozioni non scontate

La morte come specchio della vita. Dopo Miele (2013), Valeria Golino torna alla regia con Euforia dove l’improvvisa scoperta della malattia di Ettore (Valerio Mastandrea) obbliga il fratello Matteo (Riccardo Scamarcio) a fare i conti non tanto con la propria vita di gay edonista quanto con la presunzione di saper affrontare qualsiasi problema. Cosa che gli riesce perfettamente nel lavoro e nella vita sociale ma che va in crisi di fronte a qualcosa su cui non può avere alcun dominio. All’inizio il film sembra voler ricapitolare i momenti topici del percorso «malattia» — che dire della gravità della situazione, le paure della madre, la crisi familiare che si somma a quella medica, il confronto tra il fratello di successo e l’altro no — ma è la fluidità della messa in scena, la direzione degli attori (tutti molto bravi, con un sorprendente Scamarcio), la naturalezza con cui i possibili luoghi comuni sono tenuti sotto controllato per arricchirsi poi di nuovi significati che danno al film una forza e un’emozione davvero non scontate. (p.me.)

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CANNES 2018 L’ITALIA PROTAGONISTA AL CERTAIN REGARD CON «EUFORIA», SECONDO FILM DIRETTO DALL’ATTRICE

Valeria e i due fratelli

Golino regista: con Scamarcio e Mastandrea racconto drammi e rivalità in una famiglia

Valerio Cappelli

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI

CANNES Valeria Golino ha una fasciatura alla caviglia destra. «Me la sono slogata all’aeroporto. Questo film è stato un lazzaretto. Non vi dico quanti si sono fatti male durante le riprese». È una gara di bravura nel quartetto di attori di Euforia (già venduto all’estero, Cina compresa), secondo film da regista per la Golino: Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea, i due fratelli che si erano persi e si ritrovano; Isabella Ferrari e Jasmine Trinca, l’ex moglie e l’ex compagna di Valerio, malato di tumore.

Vengono coinvolte da Riccardo, il fratello minore, gay, quello realizzato nel lavoro, dinamico, spregiudicato, vuole affrontare il dolore con le armi che conosce e invece dovrebbe deporle anziché decidere tutto lui come un panzer. «Lo spunto è stato ciò che ha vissuto un mio caro amico ma anche mio padre, che ebbe la stessa malattia. Mio fratello vero, che vive a Bordeaux e suona il sax, ha fatto la base della colonna sonora di Nicola Tescari».

Il secondo film è più difficile di un debutto?

«Sì. Questo è più classico e solido, più convenzionale nella forma rispetto a Miele. Uno dei temi, in entrambi (ma è stato inconscio) è la morte, la regina del nostro pensiero e delle nostre paure».

È anche un film sulle dinamiche in una famiglia: le manca non averne una sua?

«Non ne ho una come avrei voluto: ho quella d’origine. La mia famiglia sono gli amici che ho scelto. Se ho sentito pressioni sociali per non essere diventata madre? A tratti, soprattutto quando ho cercato di avere figli, è un argomento che ti tocca».

Finita la storia con Scamarcio, si può diventare amici dopo una storia importante?

«Non ne sono sicura. Però si può continuare a amare le persone per tanto tempo, in modo diverso. Con lui sul set non ho nessuna autorità perché lo conosco come le mie tasche. È stato fantastico dirigerlo, abbiamo gli stessi gusti nel cinema, nelle cose che ci piacciono o meno».

Perché non ha recitato?

«L’unico ruolo poteva essere quello di Isabella Ferrari, mia cara amica. Le rompo le scatole da una vita, appena entro a casa sua la fotografo, perché è misteriosa, dolorosa. Ero più interessata a filmare lei che me».

Come regista…

«Non sono diventata più intollerante o sapiente. Gli attori possono snaturare un film, fare cose inattese sapendolo o senza saperlo. La regia è un altro lavoro: appassionante, stancante. Ricordo Barry Levinson quando girai Rain Man negli Usa, mi rimproverava di non essere disciplinata, di prendere le cose alla leggera, di non ricordarmi le battute. Oggi la trasgressione non esiste più, non c’è più lo scandalo, chi va contro un sistema. È stato tutto sdoganato».

Non ovunque.

«È vero, penso all’iraniano Panahi e al russo Serebrennikov a cui non è stato permesso di accompagnare i loro film a Cannes, o alla keniota Wanuri Kahiu che nel suo Paese ha problemi per il suo film sull’amore lesbico. Mi fa sentire inerte, impotente, rabbiosa, inadeguata».

Lei e i Festival.

«Venezia è la grande madre, a Cannes corro il rischio di non sentirmi a casa anche se non vedo l’ora di venirci. Essere a Un certain regard mi protegge, ma in gara ci sarei andata di corsa».

Il caso Weinstein, le poche registe donne…

«Mi imbarazzano le quote rosa. Sono contenta che ci siano sempre più autrici. I movimenti nati dopo lo scandalo sono importanti, si farà un passo avanti, due indietro, poi un altro avanti. Il fatto è che nessuno di noi è preparato culturalmente. Ha ragione Cotillard che ha detto: donne e uomini devono cambiare le cose uniti. Ci sono milioni di uomini che hanno un modo di relazionarsi sano».

L’euforia del titolo?

«È il desiderio di vita, la ricerca di felicità. Una situazione difficile diventa per i due fratelli l’occasione di conoscersi e scoprirsi, in un vortice di fragilità e di euforia».

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Von Trier oltre i limiti del pulp, spettatori in fuga
P. Me.

Una cosa è certa: Lars von Trier non ha certo il senso del limite. E nemmeno della durata, visto che impiega 155 minuti per costruire una specie di autodifesa della sua «arte» per cui scomoda Dante, Glen Gould, William Blake e i soliti scampoli di psicoanalisi. E per dirci che ognuno costruisce la propria opera-casa (il titolo del film presentato fuori concorso e – caso unico – senza la consueta sigla del festival è appunto The House That Jack Built) con i materiali di cui dispone. Che nel film sono, a volerci vedere un qualche valore metaforico, la sua pulsione a distruggere e umiliare. In special modo le donne. Tornato dopo sette anni sulla Croisette, dove era stato definito persona non grata per le sue battute filo-hitleriane, il regista danese costruisce il suo film truculento (molte fughe dalla sala) sull’estenuante confessione del serial killer Jack (Matt Dillon) che racconta a un curioso Verge (leggi: Virgilio!), cioè Bruno Ganz, i suoi exploit: i casi più approfonditi sono cinque, ma scopriremo che le sue vittime sono una sessantina, tutte conservate in una cella frigorifera. Più che ricostruire i modi sanguinolenti con cui elimina le sue vittime (la prima è Uma Thurman, che evidentemente non vuole accorgersi di quanto poco «femminista» sia il regista), il dialogo tra i due uomini serve a costruire un’impalcatura di giustificazioni «teoriche» alla capacità dell’arte di prendere spunto dalle peggiori nefandezze dell’umanità, arrivando a sottolineare che anche nel campo di sterminio di Buchenwald potesse crescere la quercia sotto cui Goethe creava. La superficialità dei suoi ragionamenti lascia davvero senza parole, in una cascata di luoghi comuni dove finisce triturato anche Glen Gloud che si vede mentre esegue da par suo la Partita n. 2 (826) di Bach, accanto a immagini di Hitler e Speer o di Mussolini, oltre a un eloquente siparietto sulla fatica di sentirsi sempre colpevole solo perché maschio. Mentre invece le donne… A pagare però le conseguenze peggiori di queste fumose elucubrazioni è il nostro Dante di cui Dillon prende le sembianze indossando l’accappatoio rosso dell’ultima sua vittima, cappuccio d’ordinanza compreso: così, dopo aver finalmente costruito la tanto agognata «casa» con i corpi delle sue vittime, scende nelle viscere della terra accompagnato dal suo Virgilio per avventurarsi in un inferno da cui non sarà facile risalire. Al di là della superficiale banalizzazione di temi importanti e complessi, prima di tutto la capacità dell’arte di elevare e riscattare argomenti anche volgari e immorali (e Von Trier non perde l’occasione per buttar lì, a mo’ di autodifesa, anche qualche fotogramma delle sue opere più contestate, Nymphomaniac, Melancholia e Antichrist) è proprio la piattezza della messa in scena a irritare, l’utilizzo di una macchina da presa sempre in movimento ma raramente a fuoco, la banalità dei dialoghi e delle situazioni. Incapace ormai di scandalizzare, Lars von Trier rivela fino in fondo la sua pochezza.

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Von Trier oltre i limiti del pulp, spettatori in fuga

P. Me.

Una cosa è certa: Lars von Trier non ha certo il senso del limite. E nemmeno della durata, visto che impiega 155 minuti per costruire una specie di autodifesa della sua «arte» per cui scomoda Dante, Glen Gould, William Blake e i soliti scampoli di psicoanalisi. E per dirci che ognuno costruisce la propria opera-casa (il titolo del film presentato fuori concorso e – caso unico – senza la consueta sigla del festival è appunto The House That Jack Built) con i materiali di cui dispone. Che nel film sono, a volerci vedere un qualche valore metaforico, la sua pulsione a distruggere e umiliare. In special modo le donne. Tornato dopo sette anni sulla Croisette, dove era stato definito persona non grata per le sue battute filo-hitleriane, il regista danese costruisce il suo film truculento (molte fughe dalla sala) sull’estenuante confessione del serial killer Jack (Matt Dillon) che racconta a un curioso Verge (leggi: Virgilio!), cioè Bruno Ganz, i suoi exploit: i casi più approfonditi sono cinque, ma scopriremo che le sue vittime sono una sessantina, tutte conservate in una cella frigorifera. Più che ricostruire i modi sanguinolenti con cui elimina le sue vittime (la prima è Uma Thurman, che evidentemente non vuole accorgersi di quanto poco «femminista» sia il regista), il dialogo tra i due uomini serve a costruire un’impalcatura di giustificazioni «teoriche» alla capacità dell’arte di prendere spunto dalle peggiori nefandezze dell’umanità, arrivando a sottolineare che anche nel campo di sterminio di Buchenwald potesse crescere la quercia sotto cui Goethe creava. La superficialità dei suoi ragionamenti lascia davvero senza parole, in una cascata di luoghi comuni dove finisce triturato anche Glen Gloud che si vede mentre esegue da par suo la Partita n. 2 (826) di Bach, accanto a immagini di Hitler e Speer o di Mussolini, oltre a un eloquente siparietto sulla fatica di sentirsi sempre colpevole solo perché maschio. Mentre invece le donne… A pagare però le conseguenze peggiori di queste fumose elucubrazioni è il nostro Dante di cui Dillon prende le sembianze indossando l’accappatoio rosso dell’ultima sua vittima, cappuccio d’ordinanza compreso: così, dopo aver finalmente costruito la tanto agognata «casa» con i corpi delle sue vittime, scende nelle viscere della terra accompagnato dal suo Virgilio per avventurarsi in un inferno da cui non sarà facile risalire. Al di là della superficiale banalizzazione di temi importanti e complessi, prima di tutto la capacità dell’arte di elevare e riscattare argomenti anche volgari e immorali (e Von Trier non perde l’occasione per buttar lì, a mo’ di autodifesa, anche qualche fotogramma delle sue opere più contestate, Nymphomaniac, Melancholia e Antichrist) è proprio la piattezza della messa in scena a irritare, l’utilizzo di una macchina da presa sempre in movimento ma raramente a fuoco, la banalità dei dialoghi e delle situazioni. Incapace ormai di scandalizzare, Lars von Trier rivela fino in fondo la sua pochezza.

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