Dalla rassegna stampa Libri

Gianni Amelio: «La mia paternità surrogata»

Gianni Amelio: «La mia paternità surrogata»

Nel suo ultimo libro, «Padre quotidiano» (Mondadori), il regista, omosessuale, racconta la storia (molto autobiografica) di un figlio che «gli è arrivato come un romanzo»
«Quando di un bambino si dice: “È il ritratto di suo padre, gli ha staccato la testa”, il papà si gonfia di orgoglio. Invece volevo un figlio al quale, con pazienza e fortuna, potessi un giorno somigliare io».

Dice Gianni Amelio che tutto il senso del suo libro che lui chiama romanzo ma invero è gran parte autobiografia, è racchiuso in queste due righe, trenta parole in totale. Padre quotidiano (Mondadori, 18 euro) è il racconto di «un incontro con una famiglia durante la lavorazione di Lamerica, nel 1993, in un paesino di montagna in Albania: scatta un rapporto di strana, improvvisa amicizia tra l’io narrante, un regista dietro il quale più che nascondermi mi rivelo – e un uomo della mia età, Ethem Zekaj, che lì vive stanco, malato, provato dalla prigione politica perché ribelle nell’animo, che non si assoggettava alle regole del regime comunista.

Lo conosco perché in quel film che sto girando fa la comparsa, sua è l’ultima immagine. Sono i tempi in cui da quella terra ancora schiacciata dalle macerie della dittatura partivano le navi dirette a Brindisi e a Bari in cerca di fortuna. E Ethem individua in me il futuro padre affidatario di suo figlio, quello che potrebbe succedere a lui quando le forze non lo sosterranno più. Qualcuno che salvi quel figlio da un avvenire incerto, dall’impossibilità di uscire dalla miseria».

Come reagì quando glielo fece capire?
«M’inquietò. Precipitai dentro un conflitto, venivo chiamato a prendermi una responsabilità che io sentivo come difficile da assumermi. E inizialmente mi ribellai a questo figlio che mi stava arrivando in maniera inusuale».

Che cosa la spaventava, in particolare?
«La paternità surrogata non è facile da accettare. Prima devi adottare la famiglia, e poi il figlio. Non a caso al centro del racconto c’è il rapporto con il padre di questo figlio, un uomo reso fragile dalla vita, della mia stessa età che si è completamente affidato, vedendo in me qualcuno con i muscoli più forti e potenti dei suoi. Mi sono occupato della sua salute, anche negli scatti infantili che ci prendiamo di diritto, quando non stiamo bene. Si è aggrappato a me. Mi ha detto: “Fino a oggi questo è stato figlio mio. Da domani sarà figlio tuo”. E piano piano ho capito che potevo prendere il suo testimone. Lui oggi è l’unico che ci manca perché Life, la madre, è ancora tra noi, abita a Roma. Io qualche volta torno nella nostra casa in Albania. E quando ci torno penso che la mia paternità è stata, appunto, una storia inaspettata. Da romanzo».

Perché Padre quotidiano?
«Perché ci riguarda a tutti. Amore e abbandono ci toccano entrambi, nella vita. E spesso si confondono. Un genitore che dà in adozione il figlio per aiutarlo ad avere un futuro meno incerto è un atto di abbandono o di amore estremo? Resta un trauma il distacco. Anche il più semplice, il più normale, che può essere quando lasciamo casa perché diventiamo adulti. Ogni volta che un ramo si spezza difficilmente si potrà ricongiungere all’albero a cui apparteneva. Ecco la ragione delle tensioni tra madri, padri e figli: quel non capirsi, quel non perdonarsi, quel non riuscire ad accettarsi a partire da un gesto percepito come ingiusto».

Perché è dovuto passare così tanto tempo – 25 anni – perché ne potesse scrivere?
«Perché è giusto prendere le distanze dalle esperienze quando ti appartengono troppo. Se no si rischia di cadere in un diario e non di creare una storia che può essere capita e condivisa da altre persone. E poi c’è il lieto fine, che non è mai da sottovalutare».

In che senso?
«Quando c’è lontananza temporale dagli eventi e il lieto fine, tutte le vicende, anche le più traumatiche, vengono guardate con la tenerezza e la dolcezza che scatenano le cose superate. Questo fa sì che resti spazio per l’allegria, per una comicità anche involontaria. Tutto ciò che sembra impegnativo dal punto di vista dei sentimenti viene addolcito dal tempo. Tutto quello che quando lo attraversiamo lo sentiamo più grande di noi si acquieta quando c’è la distanza, nel tempo acquista un sapore di orgoglio di averlo superato quel fatto, di potere dire: “Siamo ancora qui, e siamo felici”».

Si fa un gran parlare di che cosa sia una famiglia e che cosa non lo sia, ci si chiede se i figli sono di chi li partorisce o di chi li cresce. Lei, da intellettuale, da omosessuale e da padre, si è fatto un’idea?
«Mio figlio è ormai ha 42 anni, è un uomo adulto, padre a sua volta di tre figlie per cui mi sono dovuto rimettere sui libri a studiare greco e latino così che potessi essere un nonno in grado di aiutare la propria nipote a fare i compiti. Insomma, io credo che uno si domandi tante cose, ma prima che accadano. Perché poi quando accadono, quando le vivi sulla pelle, allora cambia tutto, non si ragiona più per schemi, non si ragiona più per sentito dire, non si ragiona più proprio, ma si vive e basta. E allora ogni cosa è un’avventura: lo è la nascita di un figlio naturale, la crescita di un figlio non naturale, un figlio non naturale, il mio, che diventa mio padre a sua volta, e così mi aiuta a essere migliore. Credo che avere un figlio sia un tesoro fondamentale per la nostra crescita di esseri umani: è dimensione di ciclicità, salvezza dallo sbandamento. Io mio figlio lo osservo molto. E vorrei somigliargli».

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