Lo sguardo degli altri sulla mia «Napoli velata»
di Ferzan Ozpetek
«I film, senza gli altri, non esistono. E gli altri sono, come noi, autori del film». Questa frase scritta da un grande regista, Marco Ferreri, mi rappresenta completamente. Ho sempre pensato che lo spettatore è l’ultimo Autore del film, quello che lo completa. Ogni film, anche se ha una sua oggettività tecnica, in realtà è sempre completamente soggettivo: ogni spettatore porta via con sé il proprio film, lo fa suo, sia che gli piaccia o no. Per questo io amo e rispetto ogni opinione su quello che ho fatto, perché ogni critica (positiva o negativa) e ogni riflessione mi fanno scoprire spesso cose nuove sul film e mi raccontano anche molto di chi le fa. Per questo il dibattito che si è aperto naturalmente intorno a Napoli velata mi fa molto piacere.
Non c’è niente di peggio per chi fa una qualsiasi opera che cadere nell’indifferenza. È ovvio che non ho raccontato Napoli com’è o come dovrebbe essere. Ho raccontato il mio personale viaggio — «stordito e abbagliato» — dentro Napoli. La visione di me stesso dentro una città costruita come un palcoscenico teatrale tra le quinte di due sistemi vulcanici non comunicanti tra loro: il Vesuvio che erutta lava basica di colore grigio- nero, e il Flegreo, che va da Posillipo a Ischia ed emette gas acidi e una polvere di colore giallastro.
La città ha un diretto rapporto con gli Inferi, metafora di quell’eterna lotta tra Vita e Morte che in realtà è la dichiarazione di una convivenza: quella tra Razionalità e Irrazionalità.
Napoli è la messa in scena di questa duplicità, del rapporto quasi sessuato tra Logos e Caos. E mi sembra che anche le reazioni di parte del pubblico riflettano questa duplicità: chi cerca la chiusura del cerchio razionale di tutto e chi invece si abbandona al flusso delle suggestioni. Ma anche chi, e ne ha diritto, si rifiuta di entrare e di mettersi in gioco. Quando sono stato per circa due mesi a Napoli per La Traviata un mio amico, durante una passeggiata su per la salita di Capodimonte, mi ha detto che lì Carlo III scendeva da cavallo e continuava a piedi. Per un momento mi è sembrato persino di vederlo e allora ho capito come ogni angolo della città sia pieno dei fantasmi della sua storia. Dovevo solo scegliere come rappresentarla. L’ho fatto attraverso una donna, perché Napoli – ai miei occhi – è femmina.
Così Napoli è diventata Adriana, il personaggio interpretato da Giovanna Mezzogiorno, che ho fatto camminare su due binari narrativi razionali: l’inchiesta poliziesca e lo sviluppo psicologico del suo trauma. Senza mai però cedere né alle leggi del Thriller né a quelle della Psicanalisi, altrimenti mi avrebbero tolto il Mistero della Passione, che è l’unico elemento che mi interessava. La Passione è il vero tema del film, quella tra due esseri umani ma anche quella per una città e soprattutto per il Cinema.
Adriana è un Giano bifronte che io seguo mettendola in mezzo o di fronte a una «messa in scena», lei si staglia sempre in un contesto di Rappresentazione sia tradizionale — la figliata, la tombola vajassa, la smorfia dei numeri — sia personale: la sua sessualità, il suo lutto, il rivivere il proprio trauma originario. Ogni luogo di Napoli, anche i due appartamenti privati, sono scelti in funzione di un concetto quasi teatrale di «messa in scena», tutti e due hanno infatti a modo loro dei Sipari che ci allontanano da ogni realismo per abbandonarci a una visione barocca, volutamente eccessiva.
Spero di essere riuscito ad accogliere Napoli dentro di me tanto quanto Napoli stessa è stata generosa a prendermi. Ma per lei è stato facile: mai terra è stata così curiosa dell’altro da sé, così pronta a fare sue le storie degli altri, anche quelle più nascoste e segrete.