Dalla rassegna stampa USA 

Hippie family

Hippie family

di Antonello Guerrera

A 50 anni dalla Summer of Love ripercorriamo con Ferlinghetti i luoghi di San Francisco dove, tra musica, pacifismo, droga e sesso, iniziò la rivolta hippie. Ecco come si è trasformato quel movimento.

Eravamo qui, sul prato soffice del Golden Gate Park di San Francisco, dove adesso c’è l’arena con gli spalti. Era il 14 gennaio 1967, un bellissimo pomeriggio. C’era il sole, c’erano migliaia di persone e c’eravamo noi: io, il mio amico Allen Ginsberg, Timothy Leary, i poeti Gary Snyder e Michael McClure. C’eravamo tutti, o quasi. Ascoltavamo musica, cantavamo. Anche se ognuno era chiuso nella sua bolla d’illusione, nel suo mondo estatico. A un certo punto si sentì un grande “oooh” collettivo: era il tramonto, che ci faceva sperare in una nuova alba. Ginsberg era uno dei più entusiasti di quella gioiosa premessa della rivoluzione hippie. Ma, a un tratto, mi disse: “Lawrence, e se ci stessimo sbagliando?”. Non replicai. La risposta era troppo difficile. E poi era tipico di Allen: aveva il vizio di chiedersi sempre tutto. In quel tramonto, in quell’estasi collettiva, aveva intravisto qualcosa di brutto. Qualcosa che avrebbe corroso tutta quella purezza di cui stavamo godendo».
Lawrence Ferlinghetti, poeta, editore, fondatore (nel 1953) della trasgressiva libreria City Lights è l’ultimo testimone della Beat Generation. Ha 98 anni, un glaucoma, ma ricorda benissimo quel pomeriggio di 50 anni fa. L’happening si chiamava “Human Be-In”, “Essere umano” ma anche “umani, unitevi”. Fu il primo grande raduno della controcultura americana e prologo utopico dell’era hippie, annunciata dai garofani lanciati da un piccolo aereo in volo. Mancavano solo pochi mesi alla “Summer of Love” di San Francisco, l’estate dell’amore che fece conoscere al mondo i “figli dei fiori”.
Quel giorno, allo “Human Be-In”, fricchettoni, impiegati e famiglie accorrono scalzi con “cappelli strani, tuniche indiane, boa piumati, bambini, cani, e in mano campanelli, libri, candele”, racconta Fernanda Pivano in L’altra America degli anni Sessanta. Sul palco, intanto, salgono leggende come i Jefferson Airplane con il loro “Coniglio bianco” e Somebody to Love, i Big Brother, l’irrequieta Janis Joplin e i Grateful Dead di Jerry Garcia, profeta della psichedelia californiana. “We are all one”, “siamo tutti una cosa sola” canta il profeta Ginsberg, mentre gocce di Lsd accompagnano il lungo viaggio collettivo al termine del pomeriggio. Timothy Leary, psicologo di Harvard esploratore e teorico delle droghe psichedeliche, pronuncia alla folla quello che sarà il motto generazionale “Turn on, tune in, drop out” (“Accenditi, sintonizzati, cambia vita”). «Ma fu Ginsberg la figura fondamentale», ricorda oggi Ferlinghetti, che con lui nel 1957 finì sotto processo per aver pubblicato lo scandaloso poema Urlo. «Allen fu il ponte tra la filosofia beat di Jack Kerouac e Neal Cassady negli anni Cinquanta e il movimento hippie. I beat anticiparono molti temi che esplosero nel ’67: la ribellione, l’ecologia, la poesia, l’orientalismo. Ma quando arrivò l’estate, e con essa la tanto celebrata Summer of Love, il sogno era già finito».
Già, lo cantarono anche i Grateful Dead in Box of Rain: “Questo è un sogno che abbiamo sognato tutti, un pomeriggio di tanto tempo fa”. In quell’estate centomila giovani si riversarono a San Francisco per magnificare la pace, l’amore, i colori, le droghe, la spiritualità, i diritti sessuali, l’uguaglianza ma anche la diversità, la comunità, la musica, l’acid rock, la natura e una vita estremamente libera. Oggi, cinquant’anni dopo, quell’evento leggendario viene venerato nella città californiana con mostre, eventi e tour su pulmini Volkswagen col simbolo della pace. E ci si chiede cosa resta oltre il sesso, la droga e il rock and roll.
Oggi il locale dove Ginsberg lesse l’Urlo è un ristorante Tacko e solo una targhetta troppo piccola ricorda l’evento: era il 1955. Due anni dopo, nel maggio 1957, Life pubblica un reportage dal Messico, Alla ricerca del fungo magico, che ha un successo clamoroso tra giovani e intellettuali. Molti ne ripercorrono le orme, compreso lo stesso Timothy Leary. Poi arrivano “i test con l’acido” di Ken Kesey, (raccontati anche da Tom Wolfe nel profetico Electric Kool- Aid Acid test) e nel 1962 (stesso anno di Big Sur di Kerouac) Qualcuno volò sul nido del cuculo: nel 1964, infine, all’università di Berkeley si diffonde irrimediabilmente “il movimento per la libera espressione”. Ecco, i semi erano stati piantati, i fiori – e i loro figli – sarebbero nati a breve.
Ma Ferlinghetti va sempre controcorrente. «All’inizio, come allo Human Be-In, fu una rivolta giovanile innocente, utopica ma limpida», spiega l’autore di A Coney Island of the Mind. «I giovani si scagliavano contro la guerra – c’era il Vietnam, allora – le convenzioni, la meccanicizzazione, la mercificazione, il “money money money”. Ma a giugno, la rivoluzione hippie era già finita. La droga divorò tutto. Non l’erba o l’Lsd, intendo la cocaina, l’eroina. Tutti gli ideali furono avvelenati. La rivoluzione diventò una parata di zombie. La Summer of Love non fu l’apoteosi del movimento, ma la sua morte prematura ».
Haight-Ashbury, il quartiere-cuore di San Francisco dove cominciò tutto, edifici bassi, grigi e popolari, oggi sembra giustificare le parole di Ferlinghetti. I tossici, spesso mendicanti o spacciatori, si accasciano sui marciapiedi. A pochi isolati da qui le case dove abitavano Janis Joplin e i Grateful Dead sono state ristrutturate: ora sono dimore eleganti, ricchissime e accessibili solo all’uno per cento della popolazione. Di hippie oggi restano solo i menestrelli stonati, i chioschetti di souvenir tibetani/nepalesi, il dio Ganesha dipinto sui muri, gli instancabili Hare Krishna e i negozi di vestiti psichedelici. Il più grande è proprio all’incrocio delle due strade, Haight e Ashbury, che hanno battezzato l’area. Si chiama “Haight-Ashbury T-Shirt shop” e i marciapiedi che lo incastrano sono ricoperti di cuoricini rossi. Qui si vendono magliette, bluse e vestiti dai colori allucinati e sgargianti, come le innovative scenografie dei concerti dell’epoca. La titolare si chiama Sunny, è una donnona riccia, bionda ed esclama spesso “Magic!”. Sunny ha solo 40 anni, nel ’67 non c’era, ma il suo spirito hippie è atavico. E con i soldi della sua attività, cerca di alleviare il disagio di questo quartiere, memorabile ma problematico. «Oggi ho ricevuto una bella notizia» dice commossa, «hanno approvato il nuovo centro di accoglienza che ho finanziato nel tempo coi miei ricavi. Decine di persone non dormiranno più per strada. Questo è lo spirito del ’ 67 che resiste ancora oggi » .
A tre isolati dal negozio, vive Bill Ham, che nel 1965 fu il pioniere proprio di quella “ light art” che invase le due sale da concerti più famose in città ( l’Avalon, oggi chiuso e il Fillmore) e poi il mondo. Una scenografia di luci liquide e squillanti, perfetta per le lunghe danze psichedeliche amate dagli hippie. Artista e hippie ancora convinto, 84 anni, barba e capelli bianchi lunghissimi, Ham ci accompagna nella cantina dove ancora oggi compone le sue opere con tre proiettori e pitture che mescola su un vassoio di vetro, per poi irradiarle sui muri: « Molta gente neanche conosceva le band dei concerti racconta Ham – veniva solo per le mie luci e per viaggiare con loro » .
Ma il movimento hippie a San Francisco – città vaccinata all’aristocrazia dell’est americano e sin dagli anni Cinquanta un rifugio sicuro, al riparo da intolleranza e bigotti – non è stato solo uno sfoggio utopico e dionisiaco. « L’eredità degli hippie è evidente anche oggi » , spiega Greg Castillo, professore a Berkeley e curatore di una rassegna sul modernismo hippie, « basti pensare al pacifismo, ai diritti individuali sorti da quel subbuglio sociale e culturale, alla new age, allo spiritualismo, allo yoga, al cibo organico e a chilometro zero. E poi soprattutto l’ecologia che solo in quegli anni divenne tema mondiale. Lo sa che il primo social network lo ha creato nel 1973 Lee Felsenstein, uno studente del “ Free speech movement” a Berkeley? Era una bacheca elettronica dove ognuno lasciava pensieri e appuntamenti. Un po’ come Facebook oggi… » .
Anche la musica cambiò moltissimo con la Summer of Love. « San Francisco è sempre stata una città pregna di sperimentazioni e contaminazioni tra jazz, rock, blue grass e avanguardia, allargando notevolmente l’orizzonte pop » , racconta Joel Selvin, 67 anni, uno dei massimi critici musicali di San Francisco e autore di The Rolling Stone – Altamont ( Hoepli). « Prima le canzoni duravano al massimo due o tre minuti, dal 1967 invece cambiò tutto: ai concerti s’improvvisavano nuove versioni delle canzoni, lunghe anche mezz’ora, mentre si viaggiava con la mente. Hendrix divenne leggenda al Monterey Festival dove bruciò la chitarra e si prese tutta la scena della rassegna, che fu l’apoteosi della Summer of Love e uno spartiacque cruciale. Perché a Monterey, dalla miscela di Who, i Mamas and Papas, Simon & Garfunkel, Janis Joplin e la prima grande esibizione di Otis Redding, nacque un nuovo suono del rock » . Non a caso, due anni dopo verrà Woodstock.
Ma Ferlinghetti guarda la sua città sconsolato. « La Silicon Valley si sta prendendo tutto, mentre la città è avvelenata dai soldi di investitori e turisti. Negli ultimi 4- 5 anni è cambiata radicalmente. Tra altri dieci sarà irriconoscibile. I poeti e gli artisti non possono più permettersi di vivere qui, ci sono solo condomini. L’eredità hippie? Non esiste. L’unica eredità è la mia libreria che ancora oggi rimane aperta tutti i giorni fino a mezzanotte. Resisterà ancora per molto, vedrete. Ma tutto il resto è distrutto. San Francisco ha l’anima a pezzi » .

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