Dalla rassegna stampa Personaggi

Qualcosa resterà. Su omosessualità e letteratura

L’omosessualità diventa normale quando è normata. In Italia è ben lungi dall’esserlo… Per un artista il fatto di essere omosessuale costituisce un modo unico e fondamentale di guardare al mondo, al suo ambiente e naturalmente a se stesso…

Qualcosa resterà. Su omosessualità e letteratura

di Franco Buffoni

[Questo articolo uscirà, col titolo Chiacchiere sul figlio del Conte Monaldo, sul prossimo numero di «Inverses», dedicato all’Italia e curato da Patrick Dubuis e Luca Baldoni].

Parlare di autori omosessuali o di letteratura omosessuale mi fa una strana impressione. Da un lato sono convinto che in Italia ce ne sia bisogno: in Italia l’omosessualità non è ancora “normale”. L’omosessualità diventa normale quando è normata. In Italia è ben lungi dall’esserlo. Il mondo post-gay è un mondo dove le inclinazioni non implicano per forza il riconoscersi in un gruppo, in una presunta cultura o in uno stile di vita. Da noi invece c’è ancora molto bisogno di una rivendicazione militante della differenza. Prima di poterci concedere – anche noi – il superamento dei ruoli e delle categorie.
Dall’altro lato, tuttavia, parlare di letteratura omosessuale mi riporta – per analogia – al disagio che provai qualche anno fa a Siena, quando in occasione di un convegno sulla traduzione, dopo avere impostato la mia riflessione sulla differenza costituita dalla traduzione letteraria (per analizzare la quale risultano inadeguati gli strumenti della sola linguistica teorica: occorre integrarli con un’altra strumentazione preveniente dalla “dottrina del gusto” di kantiana memoria, alias dalla filosofia estetica) uno Jago precocemente canuto mi contestò affermando che non si sarebbe mai sognato di parlare di traduzione chimica, dopo aver tradotto un manuale, per l’appunto, di chimica.
Che cosa delimita i confini di una presunta letteratura omosessuale, ci possiamo chiedere. La vita erotica, presunta o dichiarata, di chi scrive? I temi trattati?
Certamente continuerò a parlare di traduzione letteraria – almeno fino a quando percepirò che tale formula custodisce un’inalienabile specificità – e continuerò a parlare di letteratura omosessuale, almeno fino a quando da essa mi giungerà una rivendicazione di fondo.
1. In un convegno di letteratura tenutosi a Firenze qualche anno fa, particolarmente dedicato alla poesia delle nuove generazioni, due importanti critici quali Andrea Cortellessa e Roberto Galaverni parlarono rispettivamente di Pier Paolo Pasolini e di Pier Vittorio Tondelli come di intellettuali a tutto campo, attenti in particolare alle istanze sociali (Pasolini) e agli esiti letterari dei più giovani (Tondelli). Subito dopo toccò a me prendere la parola. Invece della relazione scritta che mi ero preparato, parlai a braccio, replicando all’impostazione argomentativa di chi mi aveva preceduto più o meno nei termini seguenti.
Mi hanno molto colpito i richiami a Pasolini e Tondelli, fatti da Cortellessa e Galaverni. Pasolini era soprattutto il potenziale di scandalo che si portava appresso nell’Italia degli sessanta e settanta.
La stessa cosa vale per Tondelli nell’Italia degli anni ottanta. Anche in Tondelli, la valenza letteraria in senso stretto era sostenuta da una forte potenzialità di scandalo.
La parola omosessualità nessuno di voi l’ha pronunciata, ma dovrebbe essere chiaro che si tratta del denominatore comune tra questi due personaggi. Che avete menzionato voi, non io, in questo dibattito sulla poesia. E poiché voi li avete menzionati, io mi sento in obbligo di continuare la vostra riflessione.
Credo che il discorso sulle tematiche sia fondamentale. Cioè, di che cosa parlavano questi due autori? E la mia risposta non può che essere: questi due artisti avevano bisogno anzitutto di parlare di una cosa che urgeva dentro di loro: la loro omosessualità. Che era stato il filtro attraverso il quale da adolescenti erano stati costretti a conoscersi e a conoscere il mondo.
Da artisti quali erano è fuori discussione che riuscirono a trasformare questa loro ricerca in arte. Ma l’omosessualità rimase sempre la loro grande tematica, quella con la T maiuscola. Se non parliamo di omosessualità, non capiamo come mai siano diventati rispettivamente Pasolini e Tondelli. Poi, è evidente, sei un uomo intelligente, sei un artista, canalizzi questa necessità, la mimetizzi in tanti modi e dunque finisci con l’apparire intellettuale e scrittore e poeta a tutto tondo, in grado di occuparti anche di molti altri argomenti. Ma se, a distanza di tempo, noi analizziamo questo “tutto tondo” scordandoci quella T maiuscola, credo che commettiamo un grave errore di impostazione interpretativa.
2. Mi capita abbastanza spesso di dover procedere a interventi di questo tipo, sia in ambito accademico, sia in ambito più strettamente poetico-letterario, sempre scontrandomi con il muro di gomma dell’incredulità o dell’incomprensione degli eterosessuali, che paiono non voler comprendere un dato fondamentale. Per un artista il fatto di essere omosessuale costituisce un modo unico e fondamentale di guardare al mondo, al suo ambiente e naturalmente a se stesso.
Solo in una società post-gay – come possono esserlo oggi alcuni paesi nord-europei e forse il Canada – un giovane artista può sentirsi indotto a non porre più quel dato al centro della sua ricerca. Perché l’ambiente in cui è cresciuto e si è formato considera ormai l’omosessualità come una variante naturale dell’umana sessualità, e gli sbocchi istituzionali e giuridici che per essa prevede sono ormai saldamente entrati nel costume di quella società.

3. In Italia siamo ben lontani dall’aver compiuto tale passaggio. Ricordo, negli anni novanta, un convegno che si tenne all’Università di Torino. Dopo una dotta relazione su Gadda, in cui la relatrice si era ben guardata dal menzionare quel dato essenziale della biografia dell’ingegnere, alla mia domanda sul perché non avesse posto anche quella caratteristica gaddiana in dialogo con le altre nel suo intervento, la relatrice – visibilmente alterata – replicò che, prima di fare certe affermazioni lesive dell’onorabilità delle persone, occorreva portare le prove e comunque essere prudenti!
Questo era lo stato dell’accademia italiana quando ero un giovane professore associato che ancora doveva superare il concorso a ordinario! E non è che oggi lo stato delle cose sia molto cambiato. Certo lo è su Gadda e Palazzeschi, perché le “prove” – come diceva quella timorata – sono saltate fuori, eccome. Ma su molti altri autori si continua a fingere e a mentire, rendendo irrisolte o addirittura risibili molte biografie, e persino la corretta interpretazione di molti passaggi delle opere.

4. Che cosa significa porre potenzialmente anche quel dato (l’omosessualità) in dialogo con gli altri dati? Significa smetterla di pensare che in poesia gli omosessuali siano stati soltanto Saba Penna Pasolini e Bellezza, perché lo hanno dichiarato. Mentre su tutti gli altri andrebbe solo stesa e difesa strenuamente una grigia patina di neutro eterosessuale. Grigia quanto i crani e l’animo di gran parte dei nostri italianisti. Quanto invece sarebbe importante porre anche quel dato nel novero delle possibilità per Marino Moretti, per esempio, o Diego Valeri, o Clemente Rebora, o Camillo Sbarbaro, giusto per fare qualche nome.

5. Nel 2012, anno del centenario pascoliano, tenni una conferenza all’Università di Tor Vergata, il cui testo poi pubblicai su «Le parole e le cose». Ancora oggi potete verificare direttamente il tenore di numerosi scandalizzati interventi nel relativo thread.
Che cosa mi ero limitato a sostenere? Esemplifico riportando pochi semplici scambi di battute:
“Da profano chiedo: ma è veramente così importante sapere se Pascoli fosse omosessuale? Faremmo davvero un passo avanti nel capirlo?”
La mia risposta fu:
“Lei chiede: faremmo davvero un passo avanti nel capirlo? La mia risposta è: sì.”
Guardate, se ne avete voglia, come – dopo questa risposta – “il gentile interlocutore”, in combutta con altri, scateni tutta la sua omofobia…
Per favore, mi spiega che vuole dire che “l’omosessualità è normale quando è normata”? Che diventa normale quando c’è una legge per il matrimonio omosessuale?
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In fondo la mia domanda è d’una semplicità pedestre – eppure esiziale nella sostanza: esiste una specificità della scrittura omosessuale? Esiste una forma di riconoscimento (che esuli dal mero dato biografico) intrinseca alla letteratura prodotta da autori omosessuali?
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Mia risposta: Ringrazio gli autori di questi ultimi interventi, perché – insieme – dimostrano quanto bisogno ci sia in Italia di una seria politica di ricerca (non solo accademica) incentrata sui gender studies. L’impresa è immane, gli anni di ritardo sono numerosi, le resistenze a non metterla in atto fortissime.
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Non ho capito niente del suo intervento. Cosa vuole dire che dimostriamo “quanto bisogno ci sia in Italia di una seria politica di ricerca (non solo accademica) incentrata sui gender studies”? Perché abbiamo detto delle cretinate da ignoranti? Vabbè, se abbiamo detto delle cretinate ci dica lei qualcosa di intelligente, se non ha tempo o voglia ci rimandi a qualche scritto suo o altrui così ci rieduchiamo
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Buffoni mi pare un “progressista stanco”. Somministra senza troppo entusiasmo a un’ Italia “arretrata” discorsi che nei paesi “avanzati” non c’è più bisogno di fare.
Ma è davvero importante dare una lettura gay di Pascoli per scuotere in qualche modo l’omofobia di lettori o accademici “arretrati”?
E così via. Nel thread si contano ben 65 interventi, alcuni anche molto articolati. Per fortuna tra questi appare questa perla di saggezza di G.P. Leonardi: “Quello che viene fuori da questa lettura dell’opera e della vita di Pascoli è qualcosa di simile a quello che Eve K. Sedgwick chiama l’economia del segreto e della rivelazione, in un testo pubblicato nel 1990 e che ha dovuto attendere fino al 2012 per essere tradotto in italiano. Il silenzio sulla sessualità di un autore, o il sostenere che sia semplicemente una questione di gusti personali invece che una delle questioni centrali della sua opera, è a tutti gli effetti un atto linguistico performativo, attraverso il quale si “aprono scenari diversificati e mutevoli, in cui tra il sapere – o il ritenere di sapere, o credere di sapere che qualcuno sappia, ecc. – e il non sapere – o il non voler sapere o il credere che qualcuno non sappia o non voler sapere che invece qualcuno sa e potrebbe utilizzare quest’informazione per qualsiasi finalità – intercorrono, nei diversi contesti, delle diverse gestioni del segreto attraverso l’elaborazione di strategie finalizzate a preservarlo o, invece, a svelarlo (in modo parziale o totale)” (p. 21 dell’edizione italiana). Michel Foucault ha scritto che non dovrebbe esserci una divisione binaria tra ciò che si dice e ciò che non si dice, ciò che si può dire e ciò che non si può dire: non c’è un solo silenzio ma molti e sono parte integrante delle strategie che sono alla base ed attraversano i discorsi culturali”.

6. Sempre nel 2012 – annus mirabilis – pubblicai a Roma da Fazi il romanzo Il servo di Byron, in cui immagino che – dopo la morte del padrone – il fedele servo coetaneo (e amante) William Fletcher racconti la vita del poeta senza reticenze. Nella ben documentata nota finale al libro ricordavo anche come l’accademia inglese, fino a tutta la prima metà del Novecento, avesse assolutamente rimosso il dato dell’omosessualità byroniana, e come – da parte di molti – ancora oggi sia difficile accettare quel dato di realtà. Ebbene, solo Nadia Fusini su Repubblica, attraverso un ardito paragone col Servo di Losey, accolse senza riserve la tesi del mio libro. Roberto Bertinetti sul Sole24Ore si domanda: “E’ credibile l’ipotesi di Buffoni? Non molto, a dispetto di una lunga nota bibliografica che chiude il volume”. Ricordo bene il tono con cui la responsabile dell’ufficio stampa di Fazi mi trasmise il pezzo di Bertinetti (da lei in precedenza tanto sollecitato all’anglista che sicuramente se ne sarebbe occupato: “E’ un amico”). E da quel giorno smise di promuovere il mio libro. Sergio Perosa invece si limitò a concedere che forse il poeta si era lasciato andare anche a qualche stravaganza “con qualche ragazzetto arabo”(?). Conclusione: guardiamoci dai critici eterosessuali che non vogliono capire i libri che confliggono con i loro radicati pregiudizi e confezionate opinioni. Leggete invece la recensione di Francesco Gnerre che, da omosessuale, coglie al volo il senso profondo del libro: “Sì, Byron ha avuto anche amori femminili, ha contratto anche un improbabile matrimonio durato solo pochi mesi, ma i suoi interessi reali, i suoi innamoramenti più coinvolgenti sono stati tutti maschili”. Qui, comunque, trovate tutte le recensioni al libro: http://www.francobuffoni.com/saggistica/servo_byron.html

7. Infine la rimozione più vergognosa e italica, più radicata e dura a morire: quella sull’omosessualità di Leopardi. Per quante generazioni ancora gli studenti italiani dovranno sorbirsi tesi assurde? Forse che il figlio del conte Monaldo, pur se sgraziato e infelice nell’apparenza fisica, se fosse stato eterosessuale, non si sarebbe potuto felicemente accoppiare con un’appropriata e procace contadina? Timidissimo e in gran parte mistificatorio il recente film televisivo sulla vita di Leopardi (forse peggio persino di quello sulla vita di Caravaggio). Continuate così, cari italiani. Mistificate, mistificate anche le evidenze testuali: qualcosa resterà sempre.
In conclusione mi piace citare un’operazione intellettuale di segno felicemente opposto, messa in scena nel 2016 al Nuovo teatro Sanità di Napoli da Claudio Finelli e Antonio Mocciola per la regia di Mario Gelardi: Leopardi amava Ranieri. Non una biografia, ma la storia di un sentimento inespresso, rappresentato con sapienza filologica e imperniato sull’ultimo scampolo di vita di Contino Giacomo. Come scrivono gli autori nel programma di sala: “Due uomini e una storia. Una storia che non ha fatto epoca, perché l’epoca era quella sbagliata. Il poeta marchigiano malaticcio e il bellimbusto partenopeo rampante: l’unione fece la forza di entrambi, finché il cuore di Giacomo Leopardi non resse. Antonio Ranieri non ebbe parole gentili, post mortem. E le sue lettere indirizzate all’artista furono lacerate. Ma le parole di Giacomo pesano come macigni, e la sua bella grafia parla ancora d’Amore. Per chi ai tempi non volle sapere, non volle vedere, non volle comprendere. E per chi ancora adesso assegna a Giacomo Leopardi solo caste fantasie frustrate o, peggio ancora, sesso raccattato con avarissime mance. Non fu solo quello. Che ci piaccia o no, Leopardi amava Ranieri”.

[Immagine: Robert Mapplethorpe, Calla Lily]

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