Demme, cinema da Oscar
di Paolo Mereghetti
H a attraversato il cinema americano da un estremo all’altro, dai film di serie B alle superproduzioni, dai documentari militanti agli Oscar, amato e dimenticato dal mercato, autore raffinato e insieme anonimo artigiano… Jonathan Demme, scomparso ieri a New York per le complicazioni di un cancro all’esofago, è stato tutto questo e molto di più, campione di una generazione di registi (era nato a Long Island, New York, nel 1944) arrivata al cinema quando in molti lo abbandonavano e di cui ha saputo sfruttare e assecondare la rinascita senza accettarne i compromessi.
Critico cinematografico poi pubblicitario per la United Artists, conosce Roger Corman sul set di Il barone rosso (era il 1971) e lo segue nell’avventura della nascente New World, prima come sceneggiatore poi come regista di Femmine in gabbia (1974), tipico film exploitation tra violenze e nudità (in un carcere femminile, una direttrice sessuofobica fa lobotomizzare le detenute ribelli) dove però si riconosce già un certo gusto per il non-sense e il piacere di certe invenzioni visive. Il successivo Crazy Mama fu scritto, preparato e organizzato in dieci giorni (un’«esperienza folle» a detta del regista stesso) ma il critico americano Leonard Maltin non esitò a definirlo «un gioiellino».
Più sicuro dei propri mezzi dopo Fighting Mad , Demme lascia Corman e si confronta con produzioni più impegnative: il giallo di derivazione hitchcockiana Il segno degli Hannah (ma con un finale alle cascate del Niagara che ne rivela l’originalità) e nel 1980 il sorprendente Una volta ho incontrato un miliardario , dove la storia vera dell’incontro tra un ingenuo dalle mani bucate e uno strano vagabondo (che si rivelerà essere il miliardario Howard Hughes) gli offre la possibilità di mettere a punto quelle osservazioni sull’America media e i suoi valori che offriranno linfa vitale a molte delle sue storie.
I problemi con Goldie Hawn durante le riprese di Swing Shift lo spingono a cercare altre strade, filmando un concerto dei Talking Head in Stop Making Sense , il monologo-confessione dell’attore Spalding Gray in Swimming to Cambodia o le contraddizioni della politica in Haiti. Dreams of Democracy . Il ritorno alla finzione avviene prima con il coinvolgente Qualcosa di travolgente (1986), dove il tipico «americano medio» col volto di Jeff Daniels viene trascinato prima dalla farsa al dramma da una scatenata Melanie Griffith, poi con Una vedova allegra… ma non troppo (titolo risibile per Married of the Mob ) dove Michelle Pfeiffer cerca di sottrarsi alla corte ossessiva di un boss della Mafia e infine con Il silenzio degli innocenti (1991), psycho-thriller sul Male e i meandri più oscuri della mente umana, premiato con cinque Oscar: film, regia, sceneggiatura non originale (è tratto da un libro di Thomas Harris), attore e attrice protagonista (l’indimenticabile Anthony Hopkins nel ruolo di Hannibal Lecter e Jodie Foster in quella della poliziotta che gli dà la caccia).
Dopo un documentario sul cugino Robert Castle, prete battista amico delle Pantere Nere ( Mio cugino, il reverendo Bobby ), è la volta di un’altra grande produzione, Philadelphia (1993), ricostruzione di un celebre processo su un malato di Aids che fece conquistare l’Oscar a Tom Hanks e a Bruce Springsteen per la canzone Streets of Philadelphia . Ma il successo lo spinge a provare altre strade: Beloved – L’ombra del passato (’98) con Oprah Winfrey è un’insolita (e non capita) riflessione sull’amore che porta alla morte, The Manchurian Candidate (2004) un abile remake del film di Frankenheimer, Rachel sta per sposarsi (2008), con Anne Hathaway distrugge il mito della famiglia borghese, e intanto coltiva il documentario con The Agronomist sull’opposizione al dittatore «Papa Doc» Duvalier e con Neil Young – Heart of Gold e Enzo Avitabile Music Life su due musicisti apparentemente agli antipodi. Del 2015 è Dove eravamo rimasti , con Meryl Streep cinquantenne cantante rock, appassionato inno alla libertà e alla voglia di non tradire i propri ideali, le qualità che hanno in fondo guidato tutta la sua carriera.
da La Repubblica
Il regista premio Oscar è morto a 73 anni Tra i capolavori “Il silenzio degli innocenti”
Jonathan Demme
Eclettismo e passione di un maestro del Cinema
ANTONIO MONDA
NEW YORK – JONATHAN Demme ha perso la sua battaglia con una malattia che lo aveva aggredito tre anni fa, e che sembrava aver debellato. In questi ultimi mesi ha combattuto senza perdere mai il sorriso e la volontà di costruire nuovi progetti di genere diversissimo, perché Demme era innanzitutto questo: un eccellente regista eclettico, e soprattutto un uomo di grandi ideali. Era innamorato del cinema, ma ancor prima della vita, e sapeva che senza la passione per ogni momento dell’esistenza avrebbe rischiato di rimanere uno sterile
cinéphile. Riteneva che la fusione perfetta tra cinema e vita si realizzasse nel cinema italiano: considerava La battaglia di Algeri uno dei più grandi film mai fatti, così come I pugni in tasca e Il conformista: «straordinarie opere d’arte» diceva, e raccontava di essere onorato di avere avuto un’amicizia profonda con Gillo Pontecorvo, e più recentemente con Bernardo Bertolucci. Conosceva meno Marco Bellocchio, ma sapeva citare a memoria brani del suo capolavoro, come anche di Buongiorno, Notte: «Pochi film hanno saputo raccontare meglio la mentalità distorta e demenziale dei terroristi, e l’orrore che si compie sempre nei confronti delle vittime». Parole durissime e significative, soprattutto dette da lui, che si professava di estrema sinistra e faceva dell’impegno civile una bandiera. L’amore per il cinema italiano lo aveva portato seguire anche film più recenti, che presentava nel cinema vicino alla sua casa di Nyack: è stata la sorte della Grande Bellezza di Sorrentino, Terraferma di Crialese e Per amor vostro di Gaudino, a proposito del quale dichiarava che l’interpretazione di Valeria Golino era al livello di Anna Magnani. È stato l’amore per la cultura italiana a portarlo a realizzare Enzo Avitabile Music Life, documentario sul musicista napoletano che definiva «un atto d’amore per un grande artista».
Demme apparteneva alla categoria di registi irresistibili quando parlano di cinema: come Scorsese era in grado di parlare per ore di un film che lo appassionava, sviscerandone ogni dettaglio e invitando l’interlocutore a catturarne l’anima. Questa caratteristica nasceva dalla scuola di Roger Corman, con il quale si era formato e dal quale aveva appreso a lavorare con budget ridotti, esprimendosi in maniera eclettica in diversi generi. E come Corman definiva se stesso innanzitutto un artigiano, ma basta vedere i suoi film per rendersi conto di come abbia raggiunto ripetutamente l’arte: pochi film hanno raccontato con analoga efficacia la tragedia dell’AIDS come
Philadelphia, per il quale realiz- zò anche il video di Bruce Springsteen. Il film ha momenti in cui l’emozione è pura come nella scena in cui Tom Hanks morente fa ascoltare l’Andrea Chenier a Denzel Washington.
E pochi film hanno trasceso il genere come Il silenzio degli innocenti, con il quale trionfò agli Oscar anche come regista: i duetti tra i protagonisti riescono a raccontare l’anima dei personaggi e non c’è scena che non sia segnata da uno straordinario magistero registico. Uno dei suoi racconti preferiti era come si era “salvato” scegliendo Jodie Foster e Anthony Hopkins al posto di Michelle Pfeiffer e Sean Connery “troppo belli e carnali”.
Insieme ai due film più celebri, Demme ha realizzato commedie d’autore come il delizioso
Una volta ho incontrato un miliardario, Qualcosa di travolgente e Una vedova allegra… ma non troppo, terribile titolo italiano di “Married to the mob”. Ha poi spaziato nel cinema politico, come testimonia il remake di
Manchurian Candidate, e anche nell’adattamento di grandi libri come Beloved, dal romanzo di Toni Morrison: fino a pochi mesi fa ha lavorato all’adattamento di 11/ 22/ 63 di Stephen King. Ma forse è nella musica che ha dato il meglio della sua arte, come testimoniano anche Rachel sta per sposarsi e Stop making sense sui Talking Heads, un più bei film musicali mai realizzati. E non sono meno avvincenti i tre film dedicati a Neil Young e quello realizzato lo scorso anno su due concerti di Justin Timberlake. Specie negli ultimi anni ha diretto anche molti documentari, tra i quali svetta il potente The Agronomist, ambientato ad Haiti, isola che amava particolarmente: non c’era attività che non nascesse dall’intento sincero di fare qualcosa che rimanesse e non fosse solo un prodotto di consumo. Anche per questo una delle attività più importanti e meno conosciute è stata quello di mentore di registi della nuova generazione, a cominciare da Paul Thomas Anderson, che oggi lo piange, venerandolo come un padre artistico.
Tanti i film dedicati al rock da“Stop making sense” sui Talking Heads ai lavori su Neil Young È stato anche un mentore per tanti giovani registi come Paul Thomas Anderson