Dalla rassegna stampa Libri

Le vere parole di Don Milani

Dopo le polemiche scatenate dal libro di Walter Siti esce l’opera omnia del grande educatore

Perché il potere ha ancora paura del prete senza chiese

SILVIA RONCHEY

Vissuto per metà sotto il fascismo, per metà nell’Italia divisa tra democristiani e comunisti, Milani è il rampollo di un’alta borghesia ebraica di antico lignaggio, radicate posizioni liberali, sofisticate tradizioni culturali — bisnonno senatore, Freud e Joyce, Svevo e Pasquali tra le conoscenze di famiglia, l’intelligencija russa nel Dna — che si fa traditore sia del proprio ceto, sia degli schieramenti autoritari della propria chiesa, nonché, in seguito, di quelli dei partiti, che i suoi gesti provocatoriamente radicali negli anni Cinquanta faranno più di una volta infuriare. È un ebreo non praticante che fa «indigestione di Cristo»,
come scrive al suo mentore e direttore spirituale Raffaele Bensi. Ma la sua conversione non è certo dall’ebraismo al cristianesimo, bensì da un battesimo di convenienza, ricevuto per sfuggire alle leggi razziali, a un abito scomodo, indossato per vocazione di riscatto: quello di cercatore di verità. Cosa ha fatto Lorenzo Milani? Si è fatto maestro, non metaforicamente ma alla lettera, nel modo più umile e concreto, prima a San Donato, poi a Barbiana. Nel suo insegnamento si è liberato del catechismo, alla lettera ma anche metaforicamente, per attuare un progetto di “redenzione immanente” dell’ingiustizia sociale, ma anche per rovesciare l’impianto ideologico della scuola confessionale. Dove per confessione si intende quella cattolica, ma anche l’altrettanto autoritaria catechizzazione prodotta dalle ideologie secolari. Finendo così per «smascherare l’inganno costitutivo del potere e restituire la sovranità a una manciata di subalterni inafferrabili alla scolastica marxista allora imperante », come scrive Alberto Melloni nell’ardente introduzione all’edizione critica dell’opera omnia in uscita nei Meridiani Mondadori. Calamitato dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura fin da adolescente, artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni Trenta, è quasi dandistico il suo primo incontro con il messale romano: «Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore? », scrive diciottenne all’amico Oreste del Buono. Nel ’43 entra in seminario. Quando, dopo più di un decennio di attrito con le gerarchie, il suo primo libro, Esperienze pastorali, gliene guadagna definitivamente l’opposizione senza garantirgli alcuna effettiva protezione della sinistra comunista, Milani non fa che rafforzarsi nel convincimento, forse inevitabile per un intellettuale italiano, che l’unica possibile resistenza sia l’inappartenenza. Ed ecco che l’autorità ecclesiastica lo esilia in quell’«angolo estremo senza acqua, senza corrente elettrica, posta o strada » che è Barbiana. Milani «farà dell’esilio un trono».
Nella sua lotta al conformismo, nel voto di riscatto che sia il ruolo di intellettuale sia l’abito sacerdotale ritiene gli impongano, avrà cari non solo «i mezzi poveri del proprio mestiere con la gelosia con cui il nobile decaduto tiene ai propri titoli», ma cercherà di aprire un varco ai figli del proletariato contadino che tenta di educare proprio in quel modo alto borghese contro il cui feroce sistema di esclusione ha lottato, arrivando a dispensare loro, ostentatamente, gli stessi privilegi materiali, applicando ai venti allievi di Barbiana «i metodi dell’educazione grande bourgeoise »: l’opera alla Scala, i soggiorni all’estero , addirittura la piscina. La passione per un utopistico «riscatto del tempo penultimo », in cui l’avanguardia contadina che ha riacquistato la parola diventa élite, domina ogni suo gesto, sempre politico, mai settario, sempre etico, mai arbitrario. Ogni intellettuale è un prete mancato. Il problema è che molti intellettuali mancati si fanno preti — di qualunque chiesa, confessionale o secolare, per innato dogmatismo, per ansia di assoluzione anticipata e garantita. Don Milani non era né l’uno né l’altro, e per questo la sua profonda laicità è stata tenuta per più di mezzo secolo in ostaggio da più cleri. Lorenzo Milani muore nell’estate del ‘67 e la sua ricerca, sarà, scrive Melloni, «rapita dal Sessantotto », che farà di lui «l’icona di un mondo che gli era estraneo», postumamente affiliata da un’opposizione politica che ha avuto tra le sue responsabilità, peraltro condivise con demagogici schieramenti di governo del nostro paese, la sistematica decostruzione del suo sistema scolastico. Proprio quello che a Milani stava più a cuore, che auspicava acattolico e aconfessionale, che vedeva come unico vero strumento rivoluzionario — ma certo solo se e quando «dota i tacitati della parola », non quando li riduce a un nuovo, subculturale silenzio. Nell’anno in cui ricorre il cinquantenario della sua morte, sembra che da più parti si cerchi di infangare la memoria di Milani.
Sto con la professoressa, è il titolo di un recente articolo apparso sul Sole 24 Ore, con allusione al suo scritto più celebre, Lettera a una professoressa. Altrove si è cercato di “pasolinizzare” la sua figura e addirittura, nel recente romanzo di Walter Siti, di suggerirlo, contro ogni evidenza, pedofilo. Ma nessun equivoco è possibile a partire da oggi. Nei due volumi dell’opera omnia si dispiega la scrittura provocatoria e indocile di questa figura di prete divenuta un punto di riferimento per i laici proprio per avere lottato tutta la vita contro gli opportunismi di chi cerca la protezione dei partiti, delle sette e delle chiese.


LE INTERPRETAZIONI
Per tutta la vita ha dovuto difendersi da chi voleva farlo passare, come diceva lui, per “un finocchio eretico”. Però l’analisi attenta e non strumentale dei suoi testi allontana ogni sospetto di pedofilia

LE IMMAGINI
Sopra, don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi Sotto, Walter Siti

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Da Famiglia Cristiana a Barbiana: “Via la dedica da quel romanzo”

«Caro Siti, ritira quella dedica a Don Milani». È questa la posizione di Famiglia Cristiana all’indomani delle dichiarazioni di Walter Siti rilasciate nell’intervista a Repubblica. Stessa richiesta da parte della Fondazione Don Lorenzo Milani, che accusa Siti di aver affermato “un falso ideologico”: «Gradiremmo che una dedica del genere fosse ritirata e che si parlasse del don Milani vero e dei suoi valori, non di cronaca becera d’ora in poi. Con un invito a riaprire i suoi scritti». In caso contrario, fa sapere la Fondazione, si darà mandato legale per accertare se vi siano le condizioni per sporgere querela. Da parte sua la casa editrice Rizzoli, chiamata in causa da Repubblica, non rilascia
commenti. Siti nell’intervista al nostro giornale aveva detto: «Se ho sbagliato l’interpretazione, la dedica è fuori bersaglio ». Il settimanale cattolico chiede allo scrittore di ammettere di aver sbagliato: «Pensare di giustificare la dedica a don Milani con qualche frase mal estrapolata dai suoi scritti non ha senso né fondamento storico». Fino alla conclusione: «Gli farebbe onore, a questo punto, riconoscere di avere esagerato (dovrebbe anche spiegare perché si è spinto così in là), assumersene la responsabilità e chiedere all’editore di ritirare la dedica dal libro. Lo dovrebbe fare per amore della verità e per la memoria del priore di Barbiana ».

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Nelle sue lettere nessuna “confessione” ma solo il gusto amaro del paradosso

FEDERICO RUOZZI

La scrittura di don Milani è difficile da catalogare: ne era consapevole. In una lettera si rivolge così all’interlocutore: «Se accanto a te ce n’è un altro e ci mettete gli occhi insieme direte di me: “il solito paradossale” e sarete cattivi». E così a chi legge di sbieco resta in mano poco: piccoli slogan («l’obbedienza non è più una virtù », «I care») o luoghi comuni su di lui, spesso denigratori, che mescolavano omosessualità e pedofilia. Frutto, quando era vivo, della vigliaccheria dei suoi nemici, e — da morto — di ritagli malfatti, come quelli a cui si è riferito Walter Siti. In particolare, un libro di 15 anni fa dello storico dell’educazione Antonio Santoni Rugiu: Il buio della libertà. Storia di don Milani, (De Donato-Lerici). Rugiu cita di seconda mano passi scelti non a caso. E ignora quasi tutti quelli in cui Milani denuncia il tentativo di farlo passare per «finocchio eretico e demagogo».
Ecco le citazioni 1) Una lettera a Oreste Del Buono del 31 luglio 1941, in cui Lorenzino fantastica sul desiderio di essere visitato da un «angelo biondo» che non è un’allusione, ma il ricorso a quel registro ironico che segna i momenti tragici della vita. 2) Una poesia del 1950 in cui Milani contrappone il desiderio del prete di essere padre degli orfani e delle vedove all’accusa («finocchio!») a cui dovrà far fronte. 3) La lettera alla madre del 29 agosto 1955, in cui ricorda ancora una volta come i suoi persecutori abbiano messo in dubbio il suo sacerdozio. 4) Concetto ribadito nella lettera al vescovo Enrico Bartoletti del primo ottobre 1958, per contrapporre l’elevazione all’episcopato dell’amico e la sua “elevazione” a Barbiana in odore di «finocchio eretico e demagogo» — cose che certo Milani scriveva non per ammetterle, ma per mostrare la bassezza dei suoi denigratori. 6) Dalla lettera all’amico giornalista de L’Europeo Giorgio Pecorini del 10 novembre 1959 viene presa la riga che afferma «che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto d’amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!) » e poi «chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso? ». Espressioni che non sono confessioni del desiderio di stuprare i bambini ma la costruzione della tesi paradossale finale: «Eccoti dunque il mio pensiero: la scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può essere fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo d’una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini». Così come sarebbe strampalato imputargli una dottrina sul privilegio cattolico di insegnare, allo stesso modo non si può fare delle premesse la confessione di uno stupratore.
E infine c’è una lettera all’amico don Bruno Brandani del 9 marzo 1950 presentata con un’ omissione che ne stravolge il senso: all’amico don Lorenzo si rivolge dicendo «questa lettera è per te solo […] se sei solo io son sicuro che mi intenderai come al tempo in cui ci si intendeva». L’ammissione di un’antica intimità erotica? La straziante affermazione che nell’esilio barbianese la vita spirituale consiste «nel tener le mani a posto!» sarebbe l’ammissione di un desiderio represso di violenza sui bambini? No, la lettura dell’insieme del brano chiarisce tutti i dubbi: «Bruno questa lettera è per te solo solo solo. Se accanto a te ce n’è un altro e ci mettete gli occhi insieme direte di me: “il solito paradossale” e sarete cattivi. Ma se sei solo io son sicuro che mi intenderai come al tempo in cui ci si intendeva. Tu lo sai che a Dio ci credo e che credo anche a tutto il resto compreso la SS. Purità e la S.Carità e la S. Umiltà ecc. Ma ora che questi nomi non son più olezzanti fiorellini nell’orticello immacolato di Dio, ma sofferenti cicatrici, ora io non sopporto più di sentirne parlare sia pure da d. Bensi o Bartoletti o p. Lombardi o chi si sia. Ci credo da me come so che ci credi te e tutti gli altri compagni che ci viviamo dentro tragicamente». Il linguaggio milaniano è volto sempre a provocare, oscillare e scivolare dal registro ironico a quello paradossale. A don Bensi, il suo padre spirituale, lo dice rimproverando di averlo spinto a lavorare al suo libro: «Può darsi che lei abbia in vista una felice sintesi delle due cose, di cui io invece non intravedo la compatibilità p. es. passare a un tempo da finocchio e da maestro, da eretico e da padre della Chiesa, da murato vivo nel chiostro e da pubblicatore del più polemico dei libri. Una sua decisione per l’una o l’altra strada oppure una sua spiegazione del come se ne possa compiere la sintesi mi farebbe un gran comodo ».

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GIORGIO PECORINI
“Ricostruzioni becere l’amore di Lorenzo era senza secondi fini”

MARIA CRISTINA CARRATÙ

FIRENZE
È il destinatario della lettera citata da Walter Siti, l’amico a cui don Lorenzo spiegava, nel suo linguaggio carico di passione, cosa intendesse per “amore” per i ragazzi di Barbiana. E a lui, Giorgio Pecorini, classe 1924, giornalista e scrittore «ateo e miscredente», il senso delle parole dell’amico — conosciuto nel 1958 in occasione di una intervista per L’Europeo dopo l’uscita di Esperienze pastorali, e rimasto legato a lui «fino alla fine» — fu, e resta tutt’oggi, chiaro e inequivocabile. «Interpretarle come è stato fatto», dice, «è un’operazione che non si può perdonare».
Ha letto il romanzo di Siti?
«No, ma a quanto vedo si tratta di un libro che non ha il coraggio di presentarsi per quello che è, cioè pornografico».
Secondo l’autore, le parole usate da don Milani in quella lettera si prestano a una lettura ambigua.
«Solo se le si interpretano in modo strumentale, becero e stupido, prescindendo dal contesto e senza conoscere don Milani. Lorenzo rispondeva a una mia lettera, in cui riferivo dell’elogio che aveva fatto di lui, come maestro e come uomo di scuola, Giovanni Malagodi, allora segretario del Pli. Un laico e non credente che però, osservava Lorenzo nella lettera, doveva aver capito la lezione di Barbiana meglio di tanti preti».
Ma come interpretare una frase come “rischio… di amare troppo (cioè di portarmeli a letto)”, pronunciata in riferimento ai suoi ragazzi; oppure “chi potrà amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in c…”; o ancora “La vita spirituale… consiste… nel tenere le mani a posto”?
«Come metafore, iperboli, che facevano parte del modo di parlare, libero e consapevolmente provocatorio, che utilizzava don Milani per scuotere le teste e le coscienze. Parole che richiamano il suo ben noto testamento spirituale, in cui confessa di aver voluto più bene ai suoi ragazzi che a Dio, ma confidando nel fatto che Dio avrebbe messo in conto a sé quell’amore. E legate al suo tipico modo di pensare l’amore, in polemica con le gerarchie ecclesiastiche che gli rimproveravano un amore “classista”: si possono amare, diceva, solo coloro con cui si sta in relazione, credere di poter amare tutti è un’imbecillità. Ma amare significa non avere secondi fini, “tenere le mani a posto” nel senso di non strumentalizzare chi si ama — ad esempio per convertirlo. E infatti non è un caso che nemmeno uno dei ragazzi di Barbiana sia diventato prete».

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“Mi pare offensivo anche soltanto difendere il priore”

SIMONETTA FIORI

«Quando ho letto la dedica di Siti ho pensato: se avesse letto il mio libro non vedrebbe don Lorenzo come “un’ombra ferita”. Accanto a “un’ombra ferita” non mi sarei divertita così tanto a Barbiana». Adele Corradi è la professoressa di Don Milani, o meglio è “la professoressa diversa da tutte le altre” a cui lui dedicò una copia della più celebre delle sue lettere. È stata al suo fianco per quattro anni, dal 1963 fino alla scomparsa del sacerdote. È autrice di un bellissimo e irrituale ritratto Non so se Don Lorenzo (riedito di recente da Feltrinelli). Oggi ha 93 anni. «Chiunque parli del prete di Barbiana tende a proiettare sulla sua figura qualcosa di sé. Può anche darsi che “l’ombra ferita” cui si riferisce Siti sia l’ombra del don Milani che piacerebbe a Siti».
Adele non vuole usare accenti sdegnati: ha l’impressione di dare alimento a una cosa che le appare giustamente assurda. «A me pare orribilmente offensivo anche soltanto tentare di difenderlo. Don Milani si difende da solo. Con tutto quello che ha fatto. E con tutto quello che ha scritto. Ma bisogna leggerlo tutt’intero, non limitarsi a estrapolare una frasetta interpretandola a vanvera. Leggendo il suo testamento, si comprende che per don Lorenzo l’amore di Dio si potesse vedere solo attraverso l’amore per le sue creature. Questo per un cristiano comporta dei rischi. E il rischio lui lo rilevava con chiarezza: ma è gratuito vederci qualcosa di losco.
«Ora mi riesce impossibile riassumere in poche parole il suo rapporto con gli allievi. A Barbiana si viveva nell’attenzione: don Lorenzo i suoi ragazzi non li perdeva mai di vista. E, nonostante la fortissima personalità del maestro, non si creava mai dipendenza psicologica.
«Non mi sono fatta mai domande sulla sua identità sessuale. I rapporti tra me e don Lorenzo erano di superficie, il che non vuol dire che fossero superficiali. Non ci siamo mai fatti domande di tipo personale. Ora mi dispiace non avergli fatto domande sulla sua conversione. Ma allora mi interessava la sua scuola. Nella scuola di Barbiana dei ragazzi si discuteva tanto, e niente e nessun modo di educarli ha fatto nascere in me il bisogno di chiarimenti sulla sua sessualità.
«Lei mi chiede chi oggi può voler male a don Lorenzo. Nessuno può voler male a un morto. E da morto lui non fa più paura. Gli fanno del male tutti coloro che anche nell’elogio deformano la sua figura. Ma – ripeto – ciascuno tende a vedervi qualcosa di sé. I tanti don Milani di cui sentiamo parlare sono soltanto proiezioni».

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