Don Leo e l’impulso a distruggere
La mia ombra sulle vite degli altri
Walter Siti riflette sul suo fare letteratura: «Ferisce ciò che tocca»
di Walter Siti
Se intervengo su questo giornale, dopo la troppo generosa recensione di Emanuele Trevi al mio romanzo, non è certo per sostenere e difendere il valore del libro stesso: i romanzi facciano il santo piacere di difendersi da soli. Sarà il «lettore ideale affetto da un’ideale insonnia» di joyciana memoria a decidere se i miei personaggi siano tridimensionali o vacue figurine stereotipe, se la trama sia scandalistica o coinvolga segmenti forti di realtà, quale grado di verosimiglianza debbano avere i simboli, se la scrittura sia dotata di spessore o anonima e corriva, eccetera eccetera. I romanzieri saranno sempre in condizione di inferiorità rispetto ai polemisti, se non altro perché il polemista richiede dieci minuti di attenzione, il romanziere almeno sei ore di lettura. Né intendo difendere la scelta dell’argomento: gli argomenti non si scelgono, si presentano e semplicemente non li puoi rifiutare. In quel lavoro servile che è sempre il lavoro del romanzo, c’è chi ha l’incarico (e il know-how) di lucidare l’argenteria, chi di pulire i cessi.
Vorrei riprendere invece un tema letterario più generale affrontato da Trevi nella sua recensione, e magari proseguirne il discorso con un’esperienza personale, in corpore vili . Il tema è quello del rapporto, nella rappresentazione romanzesca, tra prima e terza persona; la relazione, come scrive Trevi, «tra chi inventa e chi è inventato». Sembra un semplice problema tecnico di punto di vista, ma nell’attuale società dell’informazione è diventato molto di più: la prima persona ha invaso il campo, presentandosi come segno per eccellenza di immediatezza e di sincerità. Tutti vogliono dire «io», e vogliono dirlo subito esondando sui social: si chiede al politico di «metterci la faccia», nei talk televisivi la «testimonianza» sta al centro delle scalette (salvo poi mutilarla spietatamente quando arriva, «oggettiva», la pubblicità); la «democrazia diretta» si fonda sui pareri dei diversi «io», non importa quanto informati; i conflitti di idee si personalizzano in scontri tra individui più o meno mediaticamente glamour. Nello stesso tempo, la «narrazione» in terza persona ha colonizzato lo spazio dell’ entertainment : al cinema, nelle serie televisive, in letteratura, l’eccezionale e l’avventuroso si squadernano con somma potenza visionaria per compensare la vita incolore degli spettatori. Il risultato è che si giudica in prima persona e si fantastica in terza, mentre sarebbe più logico il contrario.
Negli anni Novanta e negli anni Zero questo paradossale testa-coda espressivo si è incontrato con la moda dell’ autofiction : una specie di autobiografia «aumentata» che pretendeva di superare l’inefficacia del romanzo con un’iniezione di verità, e di dare forma (quindi senso) a quella cosa informe che è la vita. Ma standoci troppo tempo immersi a bagnomaria (questo almeno è successo a me) si impara che l’autobiografia, aumentata o meno, è un ostacolo all’espressione delle verità profonde di sé. Perché le verità profonde sono inconsce, e se l’Io è la guida allora laggiù, nei territori dell’ Es , fatica ad arrivarci. Non solo: più dell’inconscio personale conta l’inconscio sociale, ciò che la società non vuole sapere di se stessa, e non è detto che l’autore empirico (con la sua vita generalmente banale) sia la migliore antenna per percepire la sismicità diffusa. Il problema è allora come uscire dalla trappola dell’ autofiction , dove trovare delle controfigure che siano più adatte dell’io a captare i segnali, per le loro particolarità psicologiche o per la loro posizione esistenziale e lavorativa. Senza perdere quella che giustamente Trevi chiama «l’ombra», cioè l’inconscio dell’autore con le sue maledizioni culturali e genetiche.
Don Leo è stato per me una di queste antenne, lo ringrazio e gli chiedo perdono se non sono riuscito a rendergli piena giustizia. Il suo lavoro di pastore d’anime mi ha aiutato a riflettere (narrativamente) sulle varie tipologie di desiderio e sui limiti della carità; sia i personaggi maggiori (Duilio, Fermo, la Mate, Adolfo, Bianca, Roberto) sia molti minori si dannano alla ricerca di una gradazione d’amore che li scaldi senza distruggerli, e quasi mai la trovano. Se il romanzo moderno si imperniava sull’individuo problematico, quello attuale mi sembra che giri intorno all’individuo smarrito. I dubbi eretici di Leo, il suo essere con un piede dentro la fede e con l’altro fuori, mi sono serviti per scandagliare una società come la nostra, che vorrei chiamare «dell’Assoluto abbandonato a se stesso». L’ossessione (sessuale e no) è un aspetto di questo assoluto: sono molti, oggi, i malati d’infinito, anche perché la tecnologia si sta trasformando rapidamente in una teologia che non ha il coraggio di dire il proprio nome. Quando si riconosce un Assoluto, di fronte al quale ogni giudizio umano impallidisce, allora per questo Assoluto si è disposti a morire e a uccidere; c’è un nesso, oscuro e troppo difficile perché io ne possa teorizzare lucidamente, tra chi cede alle proprie ossessioni nella vita privata, trasformandosi in vittima o mostro, e chi arriva a estremismi aberranti nella vita pubblica, proclamando l’assoluta sottomissione a Dio.
L’estremo Male che si rovescia nell’estremo Bene, e viceversa: questo è il campo minato in cui ho inviato Leo, un campo che le mie scarse conoscenze filosofiche e sociologiche mi indicavano come urgente oggi. Le difficoltà del limite. Provare pulsioni desideranti (e potenzialmente distruttive) per la vita che cresce è la negazione più radicale che esista: che porta Leo a fare rogo di sé, come il piccolo Andrea fa di se stesso lago. Mettere il proprio protagonista in crisi, presentandogli un intreccio di circostanze che non gli lasci scampo: è l’abc del romanzo. Leo è la controfigura che ho trovato, su cui ho proiettato la mia ombra: che è, inutile negarlo, un entusiasmo segreto per tutto ciò che distrugge. Mi sono sempre sentito, per questo, un tagliato fuori, uno che per integrarsi nel mondo doveva reprimere molto di sé – per questo, forse, ho l’impressione che uno dei modi migliori in cui sono riuscito a dirlo sia attraverso una perversione che personalmente non conosco. Ogni tanto però, leggendo e guardandomi intorno, mi pare che l’impulso segreto a distruggere non appartenga soltanto alla mia (controllata) infamia personale, ma a un cupio dissolvi più largamente sociale.
Uscire dall’ autofiction , smettere di sfruttarsi come cavia impudica, non significa purtroppo smettere di rubare la vita a chi ci sta vicino; anzi, allargando il proprio sé sul mondo esterno si allarga l’orizzonte della propria vergogna; l’indiscrezione selvaggia che prima riservavo alla mia vita non ha smesso di esercitarsi su amici e conoscenti. Questa è la colpa vera che attribuisco al mio modo di fare letteratura, la mancanza di leggerezza, una pesanteur che ferisce ciò che tocca. Tranne rari casi, in cui una frase rubata mi porta consolazione e amicizia («chi desidera i bambini è già più vicino a desiderare la donna» mi fu detto davvero da un prete mentre gli confessavo di apprezzare i lati infantili delle persone che amavo), negli altri casi tendo a carpire i lati peggiori. Chiedo scusa.