Dalla rassegna stampa Libri

Walter Siti , in un testo scabroso, si misura con la questione della pedofilia

La tentazione inquina la vita Segreti indicibili di un prete

Walter Siti , in un testo scabroso, si misura con la questione della pedofilia

Sulla Milano di Bruciare tutto (Rizzoli), il nuovo romanzo di Walter Siti, veglia giorno e notte la Torre Unicredit: «Rampa per criceti stellari, gabbia per acrobati, la fantascienza come natura». Se la Torre di Babele era stata un atto di orgoglio e dismisura castigato con la confusione delle lingue, il grattacielo più alto d’Italia sembra coltivare propositi molto più modesti del suo illustre archetipo biblico. È lo specchio di un cielo che quando è bello, come tutti sanno, è veramente bello, ma non per questo meno vuoto, meno avaro di segnali e ovviamente disgrazie. Lo sa bene il protagonista del libro, Leo Bassoli, un prete di 33 anni che a Dio non dà mai tregua, ricevendone in cambio prolungati silenzi o peggio ancora ambigui oracoli captati tra sonno e veglia, fatalmente distorti, impossibili da interpretare.

Per il suo gregge Leo è un ottimo sacerdote, uno di cui ci si può fidare, intelligente e ricco di empatia. Ma si porta dietro una colpa inestinguibile, una specie di energia nera che lo rende, nel suo intimo, molto più un penitente (con tanto di cilicio) che un pastore. Questa colpa, il mondo la chiama pedofilia, giustamente inorridito come lo è Leo da se stesso. Accade però che, nella loro universalità, i nomi dei peccati non siano mai perfettamente somiglianti ai singoli peccatori, esattamente come i nomi che la medicina dà alle malattie non definiscono con esattezza nessun malato in particolare. Ma non intendo aggirare furbamente un dato di fatto: molte pagine di questo libro sono scabrose, alcune ai limiti del tollerabile. Bruciare tutto fin dal suo primo apparire in vetrina si porta dietro un’aura di scandalo. Voglio solo notare che Siti, come ogni scrittore degno di questo nome, presuppone dei lettori in grado di compiere un’operazione elementare, da cui discende tutta la narrativa moderna: distinguere il punto di vista dell’autore da quello del personaggio. È un «fondamentale» che, se ben ricordo, si insegna anche scuola, e che ci impedisce di ritenere sensatamente che Nabokov facesse sesso con le figlie minorenni delle sue padrone di casa o che Dostoevskij, mettiamo, predicasse l’infanticidio. L’unica infamia che può commettere uno scrittore è proprio quella di giudicare ciò che rappresenta, arrogarsi una specie di superiorità morale che non gli può appartenere. Se la critica manca di queste distinzioni basilari, tanto vale affidarsi direttamente all’istinto dei lettori o alle stelline di Amazon.

Tornando al tema della colpa e della coscienza, solo una volta nella sua vita Leo è effettivamente caduto nel peccato che lo tormenta. Quando lo incontriamo, da molti anni vive castamente, esercitando uno sfibrante controllo su se stesso. Ma in una contabilità morale davvero rigorosa come quella che l’eroe di Siti esige da se stesso, la «concupiscenza», come la chiamano i confessori, è un problema ben più spinoso della rigida distinzione tra ciò che si è fatto e ciò che ci si è imposti di non fare. Il vero volto del Nemico non è la colpa, ma la tentazione. La colpa si può espiare, è un dato di fatto; la tentazione invece ci esilia in una perenne incertezza, è capace di inquinare le acque più pure con un solo, malefico granello. La potenza è più diabolica dell’atto. Davvero magistrale è la mano di Siti nel dipingere questa condizione di mortificata ansietà, questa lussureggiante foresta di scrupoli e ossessioni, fino alle sue inevitabili conseguenze tragiche.

Quella di Bruciare tutto è una storia terribile, dove lo strumento di salvezza diventa la causa della perdizione. Perché è proprio l’ipertrofia della coscienza di Leo ad accecarlo quando arriva l’appuntamento decisivo con il destino. Certamente gli impedisce di ricadere nel peccato, ma lo mette fuori gioco proprio quando l’esercizio della carità, la suprema delle virtù cristiane, diventa improrogabile. Siti non vuole affatto suggerire, come assurdamente è stato scritto, che se il suo protagonista fosse ricaduto nel peccato avrebbe salvato l’essere fragile e bisognoso che gli era stato affidato. Questo semmai è quello che ritiene Leo nella sua confusione. Ma noi non gli crediamo neppure per un attimo. Come si potrebbe attribuire una tale meccanica bestialità all’autore? Semmai, il pessimismo antropologico di Siti, e non da oggi, punta il dito sulla fatale discrepanza tra ciò che crediamo di essere e gli eventi che dovrebbero rendere reali quelle convinzioni.

Con questo libro pubblicato a settant’anni esatti, Walter Siti ha impresso una notevole sterzata al suo itinerario di narratore. Un’esigenza del genere era abbastanza chiaramente annunciata nel libro precedente, non a caso intitolato Exit strategy . Si potrebbe tentare una sintesi affermando che l’accento si è spostato dalla confessione all’immaginazione. Quell’Io «sperimentale ed aleatorio», come lo ha definito l’autore stesso, insomma quel «Walter Siti» che per tanto tempo è stato sia il narratore che il protagonista delle sue storie, sembra in effetti cedere il passo a un personaggio più classico, per così dire, scaturito da un atto di immaginazione. È un narratore che, agli occhi di chi conosce i suoi trascorsi, si atteggia un poco a un pensionato dell’esistenza che abbia optato per una posizione laterale, conservando per sé le prerogative del burattinaio e rinunciando a quelle del burattino. Si gode una meritata saggezza, troppo intelligente d’altronde per non insinuare che potrebbe trattarsi dell’estremo inganno («quando le illusioni ci abbandonano, ci lusinghiamo di credere che siamo stati noi ad abbandonarle»). Ma attenzione: Walter Siti non diventa solo il nome dell’autore che figura in copertina. Prima di abdicare con onore, si è concesso una cinquantina di note a piè di pagina e una manciata di righe in corsivo, che ci ricordano che i veri lupi, persi o imbiancati tutti i peli possibili, i vizi non li sprecano, semmai li trasformano e li dissimulano, come se solo la fedeltà a se stessi potesse generare la novità.

Tirando le somme, potremmo dire che tra l’empirico Walter Siti nato a Modena nel 1947 e il suo romanzo è riuscito ancora una volta a incunearsi, con tutta l’energia artistica e visionaria del suo cinismo e della sua pietà, il vecchio «Walter Siti» che sembrava destinato ad eclissarsi. E gli basta così poco, per affermare la sua presenza, che anche chi non avesse letto nessuno dei libri della sua saga si renderebbe presto conto che il cuore dell’opera sta proprio lì, nella relazione tra chi inventa e chi è inventato, tra la voce che racconta e la vita che viene raccontata. Relazione straziante, perché tutta l’esperienza e la consapevolezza accumulate dal vecchio narratore sono costrette a specchiarsi negli errori e nella mancanza di futuro del suo personaggio. Chi non ce la fa è sempre l’ombra, o la forza di gravità, di chi ce l’ha fatta. Un po’ come è accaduto allo Zuckerman di Philip Roth, si supera una linea d’ombra dopo la quale non è più così urgente raccontare i fatti propri per esistere. È un passaggio, uno smottamento dalla prima alla terza persona che consente alla prima di mantenere intatta la sua sostanza umana, appiattandosi nell’ombra ma evitando di scomparire. La figura di romanziere che emerge dalla mutazione è come un’allegoria, una maschera della senilità. Nulla di più necessario, se è vero, come leggiamo in Bruciare tutto , che il solo gesto che rende degna la vita è «afferrare tutta la vincita accumulata fino a quel momento nella gestione di se stessi e ributtarla sul piatto».


La vera letteratura non teme mai il rischio di rappresentare il male

La questione sollevata dal tema del romanzo di Walter Siti, Bruciare tutto , è e resta scabrosa: quali sono i limiti della letteratura? La letteratura ha confini etici o può occuparsi di qualsiasi cosa? Può un romanzo raccontare il male, portando nella pagina un protagonista che in qualche modo (e i modi sono sterminati) lo incarna? In tutti i tempi, in forme diverse, e con effetti disturbanti, i romanzieri hanno posto al centro dei loro libri personaggi cattivi senza remissione: ad esempio, l’infanticida stupratore Stavrogin nei Demoni di Fjodor Dostoevkij, il serial killer Patrick Bateman in American Psycho di Bret Easton Ellis; oppure anche il nazista Max Aue ne Le benevole di Jonathan Littell. C’è un limite? Abbiamo chiesto ad alcuni autori e critici letterari di pronunciarsi su questo punto, sollevato polemicamente, in relazione al romanzo di Siti, ieri sulla «Repubblica» da Michela Marzano.

«Parlando in generale, la letteratura ha i suoi limiti in se stessa — afferma il critico letterario e scrittore Massimo Onofri —. Perché l’estetica non è disconnessa dall’etica, ha una sua etica non detta e interna: se un libro riesce a consegnarci il male, questa può essere un’operazione moralmente molto nobile, più della “condanna edificante” del male stesso». L’esempio è quello di Lolita di Vladimir Nabokov, che fu accompagnato da uno scandalo senza precedenti, spiega Onofri: « Lolita fa un servizio etico, perché riesce a entrare in un personaggio negativo e ce lo spiega, quindi lo disinnesca. L’opera di conoscenza è sempre moralmente positiva: per dire, se i brigatisti avessero letto I demoni di Dostoevskij, magari avremmo avuto meno terroristi. E guai a confondere gli autori con i loro personaggi. Certo, deve essere vera letteratura. Per spiegarlo faccio un esempio invece opposto: perché Bagatelle per un massacro di Céline è invece un libro brutto? Perché non aiuta, faccio per dire, a disegnare una mappa dell’antisemitismo, non racconta la vita di un antisemita: è solo un libro antisemita, piccolissimo, angusto, asfissiante».

L’estetica contiene dunque una «sua» etica, secondo il critico, e questo aspetto è sottolineato da molti autori. «In generale, nei romanzi, sarebbe bene — interviene Franco Cordelli, critico, saggista e scrittore — che il giudizio morale fosse implicito. E occorre valutare il libro dal punto di vista estetico. Ma comunque, un giudizio morale esplicito è quanto di più alieno dalla letteratura. Non è buono scrivere qualunque libro per sostenere una tesi, a maggior ragione una tesi sommamente discutibile. Pensiamo a Lolita , che ho riletto di recente: è un libro anche profondamente ironico, e lo è anche perché l’autore prende le distanze dal personaggio, certo in modo non appariscente, ma tra il professore e Nabokov il lettore avverte una vera frattura, una frattura totale».

Tutti gli autori e i critici concordano su un fatto, nonostante la varietà e la diversa declinazione delle opinioni e delle riflessioni: il discrimine sulla letteratura è che sia vera letteratura.

«C’è pure tanta cattiva scrittura — spiega il docente e critico Giulio Ferroni — che si compiace di mostrare e di soddisfare curiosità morbose, sull’onda di certo esibizionismo radicale che domina questi tempi». Una questione che non riguarda soltanto la scrittura, ma tutte le forme di racconto, quello dei mezzi di comunicazione, televisione, social e rete compresi.

Ferroni pone alcuni distinguo ulteriori: «In generale la letteratura non ha limiti, in teoria. Poi i limiti a mio parere sono quelli di una ricerca di bene nel male. Deve mantenere l’apertura verso qualcosa di diverso: anche quando affronta i fatti più terribili, tiene dentro di sé un’apertura, uno spiraglio; dal negativo dovrebbe emergere che resistere — per parafrasare un titolo proprio di Siti — serve a qualcosa; la letteratura deve resistere alle finestre di orrore che pure ci sono: in qualche modo, per citare Umberto Saba, ogni estremo di male un bene annuncia , o meglio, dovrebbe annunciare un bene».

Limiti interni, etica nell’estetica, assenza di limiti. Che cosa ne pensa Lidia Ravera, autrice (con Marco Lombardo Radice) di un libro uscito nel 1976, Porci con le ali , che fece scandalo per l’irriverenza del linguaggio e il sesso esplicito? «Non esistono “i limiti della letteratura” — afferma Lidia Ravera —, la letteratura è limite di sé medesima, dipende non da che cosa racconta, ma da come lo racconta. Questo perché la letteratura è la ricerca della verità con le parole. E non è che noi decidiamo di scrivere un libro più che un altro: se lavoriamo bene, un libro è sempre universale».

Lidia Ravera ha appena pubblicato il nuovo romanzo, Il terzo tempo (Bompiani), che parla di «quello scandalo assoluto che è oggi essere vecchi», spiega l’autrice. E conclude: «Può darsi che un libro faccia scandalo e ogni epoca ha i suoi scandali. Ma la letteratura va giudicata solamente con il metro della letteratura. Qualsiasi altro metro è illegittimo».

Ida Bozzi

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