Dalla rassegna stampa Libri

“Basta romanzi cool la letteratura è dolore” “Meglio il mio melò di amicizia gay dei soliti racconti ironici e snob”

Intervista a Hanya Yanagihara, autrice di uno dei libri più amati e discussi d’America …Il romanzo è anche una storia d’amore tra Jude e l’amico Willem. «Il libro è una doppia storia d’amore omosessuale: c’è anche quella tra Jude e Harold. …

NEW YORK
I due libri imprescindibili di questa stagione americana sono “A Little Life” di Hanya Yanagihara e “City on Fire” di Garth Risk Hallberg. Tra gli elementi in comune hanno la lunghezza monumentale (832 pagine il primo, 944 il secondo), l’ambientazione newyorkese retrò e la descrizione senza compromessi di sentimenti estremi. Dei due romanzi, il primo ha spaccato la critica: chi lo considera un libro struggente e importante (dal “New Yorker” al “New York Times”) e chi invece un testo manipolatorio e non riuscito (Daniel Mendelsohn sulla “New York Review of Books”). La vicenda segue per più di un quindicennio un gruppo di amici che cercano di salvare dall’istinto autodistruttivo il protagonista Jude, segnato per sempre da un abuso sessuale subito da bambino. Una storia a tinte forti, costellata da incidenti e tragedie, e costruita intorno al tema della diversità: razziale, sessuale e culturale. In questa odissea tormentata, anche l’eros provoca un dolore inestinguibile. «All’inizio della stesura del libro », racconta l’autrice di origine hawaiiana, «ho fatto una chiacchierata con un amico sull’idea di eredità spirituale: cosa lasciamo dietro di noi, come saremo ricordati. La storia ci insegna che alcune vite hanno un interesse innato, o un’importanza superiore ad altre, ma non credo che ciò sia vero: ogni vita è piccola o grande come qualunque altra. E alla fine sono tutte piccole».
Due anni dopo “Il Cardellino” di Donna Tartt, altri due libri lunghissimi.
«Credo sia una coincidenza e qualcosa di ciclico. In realtà preferisco i romanzi brevi: l’economia creativa richiede molta più disciplina e abilità con il linguaggio ».
Il romanzo è anche una storia d’amore tra Jude e l’amico Willem.
«Il libro è una doppia storia d’amore omosessuale: c’è anche quella tra Jude e Harold. Ma per me rimane una storia di amicizia. Io credo che molti di noi vivano e desiderino relazioni al limite: qualcosa di più profondo, misterioso, o impegnativo dell’amicizia. Il rapporto tra due amici è il più coinvolgente che esista, e, almeno in teoria, quello meno definibile in termini di confini. Però ci sentiamo culturalmente a disagio rispetto ad amicizie che hanno componenti sessuali o romantiche. È come se ci aspettassimo che i protagonisti di quel rapporto dichiarassero automaticamente qualcos’altro, nel momento in cui succede: è un mettere confini e definizioni su un tipo di amore che nel suo intimo non ne ha alcuna».
Il suo romanzo racconta la vergogna che si prova quando si è vittime di un abuso, e la tendenza a darsi la colpa. Anche nel suo primo libro, “The People in the Trees” c’era un caso di abuso infantile… «È l’abuso di potere definitivo. Esistono molte persone che dicono che da bambini sapevano di voler fare del sesso, o anche di averlo fatto con persone più grandi senza aver vissuto conseguenze drammatiche. Ma ce ne sono molti, molti altri, che ne sono stati distrutti. In ogni relazione con un grande sbilanciamento di potere non si deve dimenticare mai il danno che si può infliggere».
Lei ha discusso a lungo con il suo editor su quanto possa sopportare un lettore: c’è qualcosa in cui si è censurata?
«Le nostre discussioni erano su cosa un lettore potesse trovare insopportabile. Esiste una quantità di violenza, o un livello di brutalità, che è ingiusto infliggere su un lettore? Personalmente credo di no. E non penso che si faccia il bene di un libro misurandolo con i limiti del lettore, proteggendolo insomma ».
Lei scrive: “New York è sempre stata abitata da persone ambiziose. E spesso era l’unica cosa che avevano in comune.” È ancora così?
«Sì, è l’ambizione che dà a New York quel senso di incredibile energia che i visitatori avvertono e non riescono a descrivere. A New York ognuno è nello stesso tempo in fuga da qualcosa — da chi si è, come si è stati cresciuti, cosa ci è stato detto di dover essere — verso qualcos’altro. La versione e la visione che ognuno ha del successo è differente: può significare diventare ricco, famoso, trovare l’amore o un proprio posto, ma non vieni qui se non pensi di avere una possibilità di realizzare un’ambizione. È la grande promessa dell’America in forma concentrata: il nostro amore per il reinventarsi e per la competizione».
Molti libri pubblicati in America sono scritti da bianchi con protagonisti bianchi. Il suo libro è l’opposto: è una scelta voluta?
«I miei personaggi sono uniti non dalla razza ma dall’educazione, dalla cultura e dall’idea di avere dei diritti. Certo, il dato razziale esiste: basta vedere come sono trattati i neri. Ma in alcune microculture di Manhattan, il dove sei stato al college, chi conosci e che successo hai, a volte può, per qualche momento, eclissare il dato razziale, o almeno dartene l’illusione».
Il romanzo è un melodramma che ricorda certo cinema degli anni Cinquanta.
«Non era mia intenzione esplicita scrivere un melò. Ma certamente volevo scrivere un libro in cui ogni emozione, ogni risposta, ogni circostanza, ogni dimostrazione di amore, ogni momento di dolore fosse esagerata ed estremizzata. Molta narrativa che si scrive oggi è “cool”, in tutti i sensi della parola: remota, ironica, intellettualizzata e un po’ gelida. È un tipo di scrittura che ammiro — per molti versi ha definito la letteratura americana — ma non ero interessata a seguire la stessa strada. Con questo libro ho cercato l’attenzione e il coinvolgimento del lettore: in tutti i sensi l’opposto del “cool”. Sul cinema devo però deluderla: è un medium che non mi interessa molto».


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