Mentre Mia Madre di Nanni Moretti fa il pieno di applausi alle prime proiezioni per la stampa (e una seconda visione spinge ad aumentare le stelle attribuitegli per l’uscita italiana), l’atteso film di Gus Van Sant The Sea of Trees delude praticamente tutti. Il «mare di alberi» del titolo originale è uno dei nomi della foresta giapponese di Aokigahara, 35 chilometri quadrati di rocce laviche, piante ad alto fusto e arbusti ai piedi del monte Fuji. Qui vediamo arrivare l’americano Arthur (Matthew McConaughey) per mettere fine alla propria esistenza, ma il suo progetto è interrotto dalla misteriosa apparizione di un giapponese sanguinante (Ken Watanabe) che chiede aiuto. L’impulso a salvarlo è più forte della decisione di uccidersi e i due cercano di ritrovare una via d’uscita dalla foresta, ma devono fare i conti con ostacoli imprevisti — disorientamento, strapiombi, il gelo della notte — che mettono a rischio anche la vita di Arthur. Intanto, una serie di flashback fanno conoscere il passato dell’americano, le liti con la moglie alcolizzata, i tradimenti di lui, l’insoddisfazione sul lavoro e infine la grave malattia che aveva colpito la donna (Naomi Watts). Ma queste scene finiscono per togliere tensione all’odissea notturna dei due aspiranti suicidi, e sembrano inserti gratuiti messi lì soprattutto per giustificare la presenza di una star femminile nel cast. Così alla fine si intuisce il «messaggio» — la spiritualità orientale e la comunione con la Natura possono controbilanciare la pulsione di morte dell’Occidente (Arthur sembra incarnare tutti i limiti di una cultura razionalista schiacciata dai sensi di colpa) — ma la regia non riesce mai a fondere il presente della foresta e il passato dei flashback. E tutto risulta senz’anima né cuore.
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CANNES – «I fischi a Gus Van Sant? Io amo il suo misticismo»
Il protagonista McConaughey: «Uno stile che divide Fu contestato anche nel 2003, poi vinse il Festival»
Giovanna Grassi
CANNES Dice Matthew McConaughey: «Il film è stato fischiato da alcuni alla proiezione stampa? Ognuno ha il diritto di contestare o di amare una pellicola e il regista Gus Van Sant è abituato a questi scontri. Il suo Elephant nel 2003 fu fischiato e poi vinse la Palma. The Sea of Trees ha allargato la mia visione del mondo, ha approfondito il legame spirituale, una sorta di panteistico trasporto che da sempre ho con la natura, e mi ha coinvolto tanto da farmi piangere spesso».
Dopo aver vinto e ritirato nel 2014 non solo l’Oscar, ma tutti i premi possibili, come miglior attore per Dallas Buyers Club , Matthew aveva un’ampia possibilità di scelta, ma afferma: «Non ho esitato un solo attimo nel privilegiare The Sea of Trees diretto da Gus, un regista che prediligo da sempre. Mi ha affascinato l’angoscia di un uomo che vuole uccidersi dopo la morte della moglie e va nell’immensa foresta ai piedi del monte Fuji in Giappone (però abbiamo girato nel Massachusetts), nota come il luogo dove le anime perse scelgono di ammazzarsi».
Al suo fianco ci sono il regista e Naomi Watts, che impersona la moglie morta di cancro del protagonista Arthur Brennan/Matthew. Il divo, infervorato, parla del suo ruolo e del film con passione: «Il viaggio di Arthur è anche una storia d’amore, che muta e lascia ferite, rimpianti; è un percorso di redenzione con quel fantasma, il mistero della foresta, interpretato da Ken Watanabe. La sofferenza nasce da un legame profondissimo con la moglie, che ritorna nei suoi pensieri e nei flashback con molti sensi di colpa».
Ascolta pensieroso Gus Van Sant, che come Naomi e Matthew è un veterano della Croisette. Gus desiderava profondamente dirigere il copione scritto da Christopher Sparlinge ispirato da un libro di favole popolarissimo negli Stati Uniti: «Perché è una avventura dello spirito, mette a nudo le anime, ma è anche un percorso al tempo stesso scientifico e razionale di un ingegnere, uno scienziato sempre diviso tra raziocinio e bisogno di spiritualità. Considero il film un dramma sociale. La foresta diventa il vero protagonista non solo del suo viaggio, ma di una ricerca di morte, che invece riporta Arthur alla vita».
«Per tutti noi — spiega McConaughey — questo viaggio ha rappresentato una profonda unione con gli spazi e la natura, capace di darci una forza che spesso dimentichiamo o calpestiamo. Può essere letto come metafora, vissuto come una parabola metafisica, una ricerca di risposte ad amori ed emozioni che talvolta si trasformano in tragedie. Ha diversi piani di lettura e per questo dividerà, non ho dubbi, la platea e molto la critica. Ora — conclude — sono impegnato in un copione sulla guerra civile americana, The Free State of Jones , e ho nuovamente ritrovato (sia pure come agricoltore del Mississippi) un legame con la natura».