«Mi sono messo col cuore in mano, mi sono raccontato senza timore. Ora il libro è una realtà, mi sento sollevato. Mi sono talvolta commosso scrivendolo durante i miei viaggi. Una volta, in aereo, scoppiai in lacrime e una hostess si preoccupò molto. Stavo ricostruendo momenti essenziali della mia vita… Chissà cosa deve aver pensato».
Spesso si dice che una vita sembra un romanzo, oppure un film. Nel caso del regista Ferzan Ozpetek (impegnato ora nella scrittura, con Valia Santella e Gianni Romoli, del nuovo film Rosso Istanbul , tratto dal suo primo libro, che girerà da settembre) la sua vita è davvero un romanzo, come dimostra l’autobiografia contenuta in Sei la mia vita , in uscita da Mondadori per le Strade Blu (218 pagine, 17 euro). Ma, insieme, è anche il film di tanti suoi film. Perché lungo le pagine del racconto autobiografico si ritrovano tutti i personaggi veri, incontrati nella vita e poi utilizzati nella sua cinematografia. È svelato il perché del film d’esordio, Il bagno turco (1997). Ecco la multicolore popolazione che vive sulla terrazza romana all’Ostiense in Le fate ignoranti (2001). C’è la pagina del funerale di Vera, nata come Pietro, ma che il prete chiama Vera «perché così l’ho conosciuta», quasi un’anticipazione di papa Francesco e della sua famosa frase «chi sono io per poter giudicare».
C’è tutto Saturno contro (2007), con quel timore della morte e del dolore che attraversa Sei la mia vita . C’è la vera storia di Mine vaganti (2010), con i due fratelli omosessuali che fanno a gara col tempo per svelare la loro sessualità a una famiglia tradizionale e oppressiva. Gli autentici protagonisti appartengono al reale universo ozpetekiano.
Il filo narrativo parte dalle radici turche ma si sviluppa nell’approdo all’Italia degli anni Settanta, soprattutto in quella irripetibile Roma in cui le ultime tracce di una romanità verace si amalgamavano alla fantasia liberatoria, cosmopolita di una cultura che ebbe nella prima Estate Romana di Renato Nicolini il suo manifesto.
Basta un passaggio del libro per capire quanto quegli anni abbiano pesato sul suo modo di fare cinema: «Ovunque si respirava un senso quasi assoluto di libertà. L’amore e il sesso erano pure forme di conoscenza senza censure né limiti, tranne quelli che stabilivi tu. Eravamo una generazione spensierata come nessuna mai era stata prima. Coraggiosa, avventurosa, che si dava al mondo senza risparmiarsi. Non potevamo immaginare, allora, come tutto sarebbe cambiato». L’Aids, certo.
Ma soprattutto, così sostiene Ozpetek, «quel nuovo moralismo deciso a tavolino, ne sono certo, da poteri molto importanti che temevano di non poter più controllare gli sviluppi di tanta libertà». Il libro è tenuto insieme da una grande storia d’amore omosessuale tra il protagonista e il suo compagno, che nella vera vita del regista si chiama Simone e condivide l’esistenza di Ozpetek da quattordici anni («mi auguro siano centoquaranta»).
L’unica differenza è che l’autentico Simone è in ottima salute mentre il co-protagonista del romanzo si ammala gravemente, perdendo memoria e coscienza di sé ma avendo accanto, incondizionatamente, il suo compagno che abbandona tutto per accompagnarlo verso la fine.
Ecco come Ozpetek spiega una scelta così drammatica: «È l’ammissione di una paura che mi perseguita. Abbiamo dovuto avvertire i familiari di Simone perché quando avranno tra le mani Sei la mia vita non pensino che la malattia sia una realtà». Ma il libro è un’occasione anche per rivendicare la parità di diritti, come si legge a pagina 91: «Creare una famiglia, aspirare a un progetto di vita e di affetto. Mettere al mondo e crescere dei figli, essendo per loro un genitore premuroso. Avere il diritto di amare chi ami, nella buona e nella cattiva sorte, e non solo nel segreto delle mura domestiche, ma davanti alla legge, in un ufficio dell’anagrafe come in una stanza di ospedale. Che cosa c’è di più giusto? Perché tutto questo dovrebbe essere negato a chi ha l’unica colpa di amare una persona del proprio sesso? E perché dovrebbe avere meno diritti degli altri?».
E a voce Ozpetek aggiunge: «Sarebbe tempo di giudicare le persone dalla cintola in su, per il cuore e il cervello. Renzi aveva promesso che si sarebbe occupato di questi diritti. Chissà se qualcosa si realizzerà mai».
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