NEW YORK — Robin Williams, attore e comico amatissimo in tutto il mondo, ma perseguitato dai suoi demoni, non ce l’ha fatta: si è tolto la vita l’altro ieri nella sua villa di Tiburon, presso San Francisco, dove era rimasto solo. Prima ha cercato di tagliarsi le vene con un coltello, poi si è impiccato, ha confermato ieri sera la polizia. Una vita spesa a lavorare con gli altri, a entrare nel cuore della gente immergendosi di volta in volta in personaggi fantastici e amatissimi: il professore dell’Attimo fuggente , Peter Pan , il genio della lampada di Aladino, Mrs Doubtfire, una straordinaria «babysitter». Combattendo sempre i suoi fantasmi interiori: l’alcol, la droga, la depressione che, dopo sua madre, aveva azzannato anche lui. E portandosi dietro la paura della solitudine fin da bambino quando, figlio di un ricco manager della Ford, a Chicago, viveva in una casa immensa e isolata dove giocava da solo con duemila soldatini.
Teatro, il cinema che gli ha dato anche un Oscar, i tanti party di Hollywood. Ma anche le battaglie solitarie contro le sue dipendenze. Robin Williams ha vissuto tra la gente ma temeva la solitudine. Dopo gli abusi degli anni Ottanta — amico di John Belushi, era con lui quando l’attore e cantante morì per overdose ad una festa all’hotel Marmont di Hollywood — era riuscito a venirne fuori, riconquistando la sobrietà. È durata vent’anni. Poi nel 2003 ha ricominciato a bere, complice la solitudine di un viaggio in Alaska. E tre anni dopo è entrato in una clinica per tentare la riabilitazione. È stato l’inizio del suo secondo calvario che lui stesso ha raccontato senza remore in interviste televisive e a giornali: non la migliore delle strategie di comunicazioni per un comico al quale viene chiesto di sollevare gli animi, di mostrare sempre un volto sorridente. Ma la scoperta delle sue vulnerabilità ha reso ancor più profondo l’affetto del pubblico per questo clown triste che ha dedicato tanto del suo talento artistico ad aiutare gli altri.
Barack Obama ha ricordato ieri la sua straordinaria capacità di toccare ogni corda dell’animo umano e la generosità con la quale ha messo la sua arte a disposizione dei più bisognosi: gli emarginati, i malati e anche i soldati americani impegnati all’estero per i quali si è spesso esibito senza pretendere alcun compenso.
Robin Williams, che ha avuto una vita sentimentale turbolenta, con tre matrimoni, era ricaduto nella sua depressione poco più di un mese fa, quando era stato ricoverato in un centro di disintossicazione dall’alcol a Lindstom, in Minnesota. Dimesso, avrebbe dovuto seguire un percorso in dodici tappe per tornare stabilmente alla sobrietà. Non ce l’ha fatta. La terza moglie, Susan Schneider, che ha chiesto rispetto per il dolore della famiglia e ha espresso l’auspicio che Robin Williams venga ricordato per le sue splendide interpretazioni e non per la sua tragica morte, è stata l’ultima a vederlo ancora in vita, domenica alle dieci di sera. La scoperta del cadavere l’ha fatta lunedì mattina la sua assistente cinematografica: andata alla villa di Tiburon e, non avendo avuto risposta dopo aver suonato più volte il campanello, è entrata in casa attraverso una finestra rimasta aperta. Robin Williams si è impiccato in un modo piuttosto curioso e, probabilmente non premeditato. Non ha usato una fune ma una normale cinta di pelle. E’ stato trovato in camera da letto vestito, in una posizione sospesa, con la cinta attorno al collo e l’altra estremità fissata alla porta di un armadio a muro. Aveva alcuni tagli ad un polso e poco più in là c’era un coltello insanguinato. Forse ha tentato di tagliarsi le vene e poi ha optato per l’impiccagione.
Emozione enorme, cordoglio di un’infinità di amici, soprattutto nel mondo dello spettacolo. Da ieri mattina processione ininterrotta di fan che depositano fiori davanti alla villa e attorno alla stella a lui dedicata sul marciapiede delle star di Hollywood, mentre ci si interroga sulla causa immediata del suo gesto disperato. Qualche amico accenna alla sua esasperazione per i problemi legati al suo secondo divorzio e alla delusione per la cancellazione di un programma televisivo del quale avrebbe dovuto essere protagonista. Robin Williams, a quanto pare, aveva cominciato ad avere problemi economici e nel corso delle ultime conversazioni telefoniche sembrava ai suoi amici sempre più distante, disilluso, esasperato. «Divorziare è costoso» aveva detto tempo fa in un’intervista, «ti svuota il cuore attraverso il portafoglio».
Alcuni amici dicono che l’attore aveva creato un fondo del quale sono beneficiari i suoi tre figli. Nel 2012 la sua fortuna era stata stimata 130 milioni di dollari, ma l’anno dopo Williams dichiarò di essere sull’orlo della bancarotta, proprio perché prosciugato da due onerosissimi divorzi.
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Fanciullesco, goliardico, angosciato I mille volti di un istrione irresistibile
Da Altman all’Oscar per «Genio ribelle», una carriera lunga 40 anni
Chi era il vero Robin Williams? Quello gommoso e fanciullesco di Braccio di ferro o quello cupo e angosciato di La leggenda del re pescatore ? Quello caricaturale e goliardico di Piume di struzzo o quello ribelle e sognatore dell’Attimo fuggente ? O magari quello funambolico e irresistibile del genio della lampada di Aladdin ? Difficile trovare una sintesi tra i mille volti (e le mille voci) cui aveva dato vita in quarant’anni di carriera. Ma difficile anche far coincidere quell’immagine survoltata e irrefrenabile con la dichiarazione del suo press agent, che di fronte al corpo senza vita trovato lunedì dalla polizia di Marin County si è affrettato a dichiarare che l’attore soffriva di «depressione». Come se bastasse quella parolina a spiegare tutto.
Nel paradiso degli attori, dove sicuramente Robin Williams si è conquistato un posto in prima fila, l’attore di Chicago (lì era nato 63 anni fa, il 21 luglio 1951) verrà ricordato come una delle più straordinaria maschere comiche della New Hollywood. Maschera nel senso letterale del termine perché capace di adattare il proprio volto a ogni esigenza espressiva, come se la pelle fosse plastilina, ma anche maschera artistica, pronto a indossare quella che i registi gli offrivano. C’era un po’ di Jerry Lewis nel suo gusto/piacere per le smorfie, per i personaggi «oltraggiati» dagli uomini e dalle cose. E molto gli devono i comici che l’hanno seguito, a cominciare da Jim Carrey. Anche se nessuno dei due — e si parla di grandi — aveva saputo uguagliarlo nell’ampiezza dello spettro espressivo. Capace di passare dalla commedia al dramma, anzi, dal cartoon alla tragedia, visto che al suo attivo aveva anche il ruolo di Osric nell’Hamlet di Kenneth Branagh.
Cresciuto in un famiglia dell’alta borghesia, bis-bis-bisnipote del senatore (e governatore del Mississippi) Ansel J. McLaurin — il suo nome intero è infatti Robin McLaurin Williams — abbandona gli studi di scienze politiche per iscriversi alla Juilliard School di New York (quella di Saranno famosi ), da cui esce conscio dei propri mezzi espressivi. Mimo, stand-up comic nei cabaret di Manhattan, interpreta l’alieno Mork in un episodio di Happy Days e da lì diventa l’applaudito protagonista dello spin-off Mork & Mindy , che fa vincere all’attore il primo dei suoi sei Golden Globe (oltre ad altrettante nomination).
A farlo esordire al cinema è Robert Altman che scegliendolo come Braccio di ferro in Popeye (1980) ne sottolinea da subito il lato gommoso e fumettistico, più «rispettoso» dell’originale disegnato da Elzie C. Segar (e poi animato da Max Fleischer) che della psicologia o della recitazione. L’occasione per rifarsi gliela offre George Roy Hill che lo vuole per Il mondo secondo Garp (1982), dove deve fare i conti con l’invadente madre-infermiera interpretata a Glenn Close.
Ma è solo alla fine degli Ottanta che il suo talento ha modo di esplodere sullo schermo, prima con Good Morning Vietnam (1987) poi con L’attimo fuggente (1989), che gli procurano le sue due prime nomination all’Oscar. Nel film di Barry Levinson è Adrian Cronauer, il deejay più amato dalle truppe americane nel Sud-Est asiatico, nel cui ruolo Williams tocca vette di scatenato istrionismo, più trascinante — pare — del vero intrattenitore. Nel film di Peter Weir è un professore che sulle orme di Walt Whitman tiene infiammate lezioni di poesia e libero pensiero. Due ruoli lontanissimi tra loro ma capaci di dare la misura delle qualità interpretative di Robin Williams che fece centro ancora con l’ex professore impazzito in La leggenda del Re Pescatore di Terry Gilliam (1991, altra nomination) e poi con lo psicologo coriaceo di Will Hunting – Genio ribelle di Gus Van Sant (1997), per cui vinse la sua unica statuetta, ma come attore non protagonista.
In mezzo e dopo, una miriade di titoli spesso di diseguale valore, ma dove era sempre capace di ritagliarsi una performance sopra le righe o un numero di alta scuola. Ricordiamo almeno Cadillac Man (1990), Hook – Capitan Uncino (’91), Mrs Doubtfire – Mammo per sempre (’93), Jumanji (’95), Piume di struzzo (’96), Jack (’96), Harry a pezzi (’97), Insomnia (2002) fino ai più recenti Una notte al museo 1 e 2 (2006 e 2009) e The Butler (2013). Film che andavano più o meno stretti a un attore «bigger than life» e che deve aver molto faticato ad attarsi al cinema «smaller than life» che va di moda oggi a Hollywood.