“Siamo incapaci di costruirci una famiglia, con relazioni complicate.
È una moltitudine di solitudini Un’Italia pigra e sonnolenta per colpa della televisione Nessun altro paese è come il nostro”
SE SI vogliono capire le intermittenze dei trenta-quarantenni, quel mondo di nuove solitudini, nuove famiglie, nuovi linguaggi, bisogna riferirsi al teatro di ricci/forte. Spettacoli culturalmente vivi, Troia discount, Imitationofdeath, Pinter’s anatomy, Macadamia Nutt Brittle, tutti espressione di una realtà umana che stenta a raccontarsi ma ne ha un bisogno tremendo e dunque getta la maschera col gusto dell’eccesso e un teatro contagioso come la peste, di corpi nudi e tacchi a spillo, baci omosessuali, Artaud e paperini di plastica, violenza e borse dell’Ikea che si legano tra loro in quel misto di cultura pop e sogni alla Werther, narcisismo e generosità, compiacimenti e verità in cui, alla fine, ci rispecchiamo un po’ tutti. Ragione per cui Gianni Forte e Stefano Ricci — autori e registi poco più che quarantenni (l’età non la dicono), Gianni che vive a Parigi, Stefano che vorrebbe andarci — e i loro atratorio tori, sono amatissimi (o odiatissimi), il “fenomeno ” teatrale italiano di questi anni, anche all’estero: in Spagna, Belgio, Francia dove sono di casa al MC93 di Bobigny, a Mosca dove li hanno voluti per un 1-00% Furioso dall’Ariosto già entrato nel repertorio, o con la prestigiosa École des Maîtres, il labo- internazionale fondato da Franco Quadri, che li ha scelti “maestri” della sessione 2014 al via a settembre a Udine dove hanno intrapreso il progetto di racconto dei classici, l’ Orestea e la tragedia degli Atridi per la prima volta, mettendola alla prova del loro mondo di emozioni e visionarietà. Un Eschilo nuovo — si vedrà dal 9 ottobre all’Eliseo di Roma per il Romaeuropa Festival — mescolato con Hannah Arendt, Edward Hopper, Antonin Artaud e i Led Zeppelin, come dicono loro, e con il titolo Darling «perché si parla di amore e morte, di legami fratello sorella, madre e figlio imbastarditi, involgariti, di plastica. Darling, appunto: affetti di superficie».
Da cosa siete partiti?
«Da noi. Il nostro teatro vampirizza sempre le nostre vite. Quando abbiamo cominciato a pensare a questo spettacolo eravamo in Giappone, da lì abbiamo immaginato un luogo dove è passato uno tsunami e i quattro personaggi — i nostri attori Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Gabriel Da Costa — saranno come sopravvissuti dentro un enorme container tipo quelli dei terremotati dell’Aquila».
E Eschilo?
«Sarà un Eschilo rimaneggiato, rielaborato, ricostruito al tempo della crisi, il nostro. I sopravvissuti siamo noi».
Cioè?
«Poche generazioni come la nostra vivono questa sensazione di essere rifiutati… Eterni precari, senza futuro. Siamo una moltitudine di solitudini. Ma allo stesso tempo l’etica della persona oggi è soffocata dall’insieme di regole che l’ordine sociale impone che sono come i perimetri dentro cui le mucche devono brucare l’erba. L’individuo si perde… Ci chiediamo dov’è il senso di giustizia. E tutto questo in Eschilo c’è. Noi partiamo dalla fine, dalla distruzione di quell’ordine, dallo sperdimento di una comunità, qualcosa che ci pare vicino al nostro sentimento presente, specie in Italia».
Vi pare così brutta l’Italia?
«Sì, specie a guardarla da fuori. Qui tutti sono preoccupati più a ringhiare che a cambiare ma il contesto rimane imprigrito, sonnolento, ammorbidito. Colpa anche della tv. Nessun paese sta davanti alla tv come l’Italia. All’estero vanno a teatro, al cinema, alle mostre. Qui c’è solo la tv. Per forza poi accusano noi di essere violenti, eccessivi. Per la tv, non per noi… «.
Vi accusano anche di fare sempre lo stesso spettacolo, di non cambiare.
«Nel 2007, con Troia discount quando abbiamo iniziato, ci dicevano scioccanti, trash… Sempre a incasellarci… Ovvio che se vai in profondità c’è altro al di là dell’aspetto scioccante. C’è, per esempio, il dare voce a esistenze di sogni non realizzati, di compromessi continui, di ferite che ti lasciano quei compromessi, che è la dimensione sociale della nostra generazione. Ecco perché venir etichettati come il teatro degli attori coi tacchi o il teatro omosessuale è deprimente. Noi ci siamo sempre messi in discussione. Potevamo continuare a fare gli autori dei Cesaroni come agli inizi: invece abbiamo smesso da un giorno all’altro perché capivamo che non era la nostra strada».
Quali sono i vostri riferimenti ideali?
«Maestri? Siamo onnivori. Consumiamo molto cinema e molta letteratura. Lynch, anche Fellini… Il cinema è importante per noi».
È vero che farete un film?
«Sì tra un anno con un produttore francese. È una storia di malattia in un rapporto madre- figlio. La storia di un rifiuto. Se in Darling il dramma è la sensazione di sentirsi rifiutati in un contesto sociale, il film racconta il tentativo di ricostruirsi la realtà. Un film notturno perché questa malattia che unisce madre e figlio li porta a vivere di notte quando tutti i perimetri si cancellano e ti puoi ricreare il mondo che vuoi».
Sempre cupi.
«No, nei nostri lavori c’è voglia bruciante di vita. C’è nichilismo, disperazione ma sotto la cenere c’è la consapevolezza che puoi mordere, che ce la puoi fare. Che ce la possiamo fare».