Dalla rassegna stampa Libri

Kureishi, storie di sesso e di letterature migranti

Lo scrittore alla Reggia di Caserta per il Forum delle Culture

«Mi chiamo Karim Amir e sono un vero inglese. Più o meno». È così che comincia il libro più famoso di Hanif Kureishi, uno dei più noti scrittori del suo paese, drammaturgo, sceneggiatore, regista e, appunto, vero inglese. Più o meno. Di padre pakistano e di madre britannica, Kureishi è nato a Londra, ma tutta la sua produzione è legata ai temi del postcolonialismo, dell’identità, del rapporto tra origini e integrazione.
Kureishi è a Napoli per partecipare a un incontro (stamane alle 11 nella Reggia di Caserta) organizzato dal Forum delle Culture. Si parlerà, prendendo le mosse dal suo ultimo libro «L’Ultima parola», di migrazioni, diritti e delle evoluzioni nelle culture dei migranti.
Bromley, periferia a sud di Londra. Un nonno colonnello dell’esercito indiano e un padre che voleva fare lo scrittore ma lavorava all’ambasciata. Com’era la vita per una famiglia così negli anni Cinquanta?
«Mio padre arrivò in Inghilterra dall’India per studiare legge. Quando sei bambino sei a casa con tua madre, poi ti rendi conto di essere differente. Più o meno quando vai a scuola e riconosci la tua posizione nella società. Impari in fretta: la lingua degli altri ragazzi e dei professori è diversa, e sei catapultato nella politica. Ti insegnano dell’impero, del colonialismo, del mito della Gran Bretagna. Un linguaggio di razza che ti può anche assorbire perché vedi che il “bianco” è la norma. Io poi venivo da una famiglia in cui una donna inglese ha sposato un pachistano…
Dopo gli studi tecnici ha deciso studiare filosofia. Poi a scrivere racconti erotici, e da lì è iniziato tutto…
«Ho cominciato a scrivere da adolescente. A quattordici anni ho deciso di voler diventare uno scrittore. Era la metà degli anni Settanta. A quell’epoca molti dei miei amici si interessavano di fotografia, altri facevano musica. Ma il punk ci coinvolgeva tutti, frequentavamo Vivienne Westwood e Malcom McLaren. E i Sex Pistols, ovviamente. È stato un periodo molto turbolento ma ancora di più molto creativo per una periferia come la nostra e per Londra, dove tutto passava da King’s Road. Poi ho cominciato a scrivere pornografia, a venti anni. Nel frattempo molti di quegli amici erano diventati piccoli spacciatori, prostitute occasionali, ognuno cercava di galleggiare a modo suo».
Nei suoi romanzi si parla spesso della relazione tra padre e figlio, in particolare dal punto di vista delle differenti capacità di integrazione nella società inglese. Autobiografia?
«Sono stato fortunato, perché sono stato uno dei primi scrittori che ha potuto parlare di certe cose, dell’immagine della nuova Inghilterra, della fine dell’Impero e delle sue conseguenza sociali, a cominciare dall’immigrazione di massa. E avevo davanti, nella mia famiglia, tutti i giorni, la materia prima. Ho solo pensato che questo genere di storie andavano raccontate e l’ho fatto».
Suo padre si lamentava perché nei libri che scriveva il figlio Hanif c’era troppo sesso. Che ne pensano i suoi figli, invece?
«Ovviamente non parliamo mai di sesso, la cosa li imbarazza molto. Per quanto riguarda i miei libri… non li leggono mai. Mio figlio me l’ha detto proprio ieri: non li leggerò i tuoi dannati libri. Ma non leggono libri in generale e quindi la cosa mi tocca di meno».
Il sesso è spesso al centro di quello che scrive. C’è una immagine forte, in uno dei film per cui ha scritto la sceneggiatura, considerando che siamo negli anni Ottanta, di uno skinhead gay che bacia un ragazzo pakistano. È ancora possibile per il cinema produrre una idea originale o semplicemente una immagine del sesso che risulti efficace?
«Ho visto ultimamente quel film francese, “La vita di Adele”. Credo che sia fatto molto bene. Hai l’impressione, durante le scene di sesso, che la cosa piaccia a tutte e due. E vuol dire che l’immagine è efficace. Non è importante mostrare chissà cosa per far percepire il piacere, ma è una cosa molto difficile, sia per il cinema che per la letteratura. Quello che cerco di fare io è parlare implicitamente del significato che ha quel momento, altrimenti mostri solo due che vanno a letto. Che va bene, ma è un’altra cosa».
Anche la politica ha un ruolo importante nella sua vita. Nei giorni della morte di Margaret Tatcher, una cosa abbastanza scioccante è stato vedere come la popolazione inglese, immigrati compresi, sia ancora divisa a metà tra chi la considera una delle «madri della patria» e quelli che i giornali chiamano gli haters («odiatori»). È ancora troppo presto per una analisi equilibrata di quegli anni?
«La Tatcher ha lavorato anni per distruggere la working class inglese, per indebolire i sindacati che avevano grande importanza. Per smantellare lo stato sociale, il National Healt Service, altro che visione patriottica! …Grazie a lei l’Inghilterra ha perso pezzi importanti del paese. La Tatcher non era dalla parte dell’Inghilterra, era dalla parte dei ricchi. Lei amava i ricchi e quel capitalismo estremo che ha avuto un effetto deleterio sul paese. È comprensibile che qualcuno la ami e qualcuno la odi. In fondo ha fatto una rivoluzione. Una rivoluzione di estrema destra».
La critica spesso etichetta i suoi personaggi con l’espressione loosers («i perdenti»). È davvero così?
«No, infatti non amo questa espressione. Credo sia abbastanza rozza e anche fuorviante. Sono semplicemente personaggi che mi interessano, che funzionano e sono buoni in una storia. Capaci di farmi dire cose, di mostrarsi realmente così per come si muovono nella società. Personaggi con cui posso fare cose, nel mio ruolo di scrittore».
Viviamo in un mondo che predica la globalizzazione e l’apertura delle frontiere per le merci, eppure ha una paura estrema dell’apertura di quelle per le persone. In un’epoca in cui per spostarsi da un continente all’altro bastano due ore. La possibilità di un mondo in cui gli individui possano spostarsi liberamente da un posto all’altro è solo un’utopia?
«In tutto il mondo i governi hanno una vera e propria paranoia per l’immigrazione. Allo stesso tempo però i paesi dove il capitalismo è più consolidato non possono fare a meno dei lavoratori stranieri. Dagli Stati Uniti a Londra. Perché se vuoi una economia solida hai bisogno di lavoro a basso costo. Ma hai bisogno anche che questi lavoratori non vivano una emancipazione e quindi che la popolazione abbia un sentimento negativo nei loro confronti. Ti servono ma la gente deve odiarli. Se un paese vuole usare gli immigrati come spettro faccia pure, può andare avanti per sempre. Ma alla fine se finisci in ospedale e hai bisogno di un dottore tu vuoi il migliore che c’è, non ti importa se è giapponese o italiano. Piuttosto il problema è che il migliore devi andare a trovarlo in Florida e pagarlo caro».
Nel nostro paese c’è un milione di ragazzi, figli di migranti, che non può avere la cittadinanza italiana. Figli di stranieri, ma nati in Italia. Che in Italia hanno studiato e che in Italia cercheranno un lavoro…
«Credo che chiunque sarebbe abbastanza infastidito dall’essere nato e vivere in un paese e non essere riconosciuto come cittadino. È qualcosa di più simile alla schiavitù che al diritto. È difficile credere che sia possibile, in un paese come l’Italia che è sempre stata una terra di immigrazione. Come il Pakistan, d’altronde, dove se vuoi diventare un ingegnere, un dottore, un avvocato devi andare via. Canada, Australia o Usa. Ed è una vera tragedia per un paese».
Qual è la sua relazione con l’Italia e con Napoli?
«Un rapporto molto semplice. Nel senso che è un paese che amo molto. Lo trovo meraviglioso e rilassante. Le solite cose che si dicono in giro: il cibo, il tempo, le donne bellissime. Ma la cosa più fantastica è che è davvero così».
Le sue idee, come quelle di altri intellettuali sono molto considerate oltremanica, o almeno in alcuni settori della società. Qual è il rapporto tra politica e cultura in Inghilterra?
«Credo che sia molto importante che un artista, uno scrittore, un intellettuale parli di politica. Ed è importante che in un paese come il nostro ci sia gente come Ken Loach o Stephen Frears o Rushdie. Anche tra di noi c’è un confronto su quello che accade nel paese, quando ci vediamo. Cameron, e questo genere di cose qua. Credo sia molto importante che gli intellettuali abbiamo un’idea chiara sul posto in cui vivono e lavorano».

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