Gan HaShlosha, conosciuto come «Sakhne», è uno dei parchi più belli di Israele, nella bassa Galilea. Al Pitigliani Kolno’a Festival è in programma martedì e mercoledì il documentario «The Garden of Eden» di Ran Tal che insegue nel corso di un anno la bellezza delle stagioni e varie storie umane in un luogo che si ritiene fosse veramente il paradiso terrestre. «The Garden of Dead Trees» (Il giardino degli alberi morti) è invece un luogo d’incontri omosessuali di Tel Aviv, una città laica, aperta e progressista, molto lontana dalla realtà religiosa del paese. S’intitola così anche un racconto di Yossi Avni Levy da cui Yariv Mozer ha tratto il suo primo film, «Snails in the Rain» (Lumache sotto la pioggia, foto ) – una sorta d’invito agli omosessuali a uscire dal guscio – presentato al Festival des Films du Monde di Montréal. Il regista israeliano – che nel 2008 è stato uno dei protagonisti al Gay Village di Roma del Gender Docufilm Fest dedicato a una nuova definizione dell’identità di genere – aveva firmato il documentario «The Invisible Men» (Gli uomini invisibili), premiato al Sundance Film Festival, sulla difficoltà di essere palestinesi e omosessuali in Cisgiordania e a Gaza.
Il cinema d’Israele si è affermato per storie legate alla politica e alla guerra, ma sa mostrare senza tabù anche quella controcultura aperta ai diritti e alle libertà delle minoranze, sessuali comprese. Con film come «Yossi & Jagger» e «The Bubble», Eytan Fox ha raccontato la realtà degli omosessuali nel Tzahal, le forze armate di Israele, che dal 1993 arruolano anche Gay e lesbiche, vincendo qualsiasi pregiudizio omofobo. Una realtà che fa da sfondo ora in «Snails in the Rain». Ambientato nell’estate del 1989, il film ha per protagonista Boaz, un affascinante ma malinconico venticinquenne che studia lingue – interpretato non a caso da un modello di Armani, Yoav Reuveni. Il giovane, che riceve molte attenzioni da parte delle ragazze, conduce una vita fin troppo tranquilla, anche banale, in compagnia della fidanzata. Fino a quando comincia a ricevere lettere d’amore da un anonimo ammiratore maschio: chi è? Perché ha scelto lui? Turbato, Boaz vive un conflitto interiore, ha paura di quelle lettere ma non può fare a meno di aspettarle, comincia a scrutare negli occhi degli uomini che frequenta per cercare di scoprire il misterioso innamorato, e si accorge che potrebbero essere tutti (o quasi) – gli sguardi fugaci, le conversazioni casuali, i comportamenti di molti sono ambigui. La sua identità sessuale comincia a vacillare, mentre affiorano i ricordi di un passato in cui si sentiva (ricambiato) attratto dagli uomini, quando era nell’esercito.
Alla ricerca di una morale non convenzionale è anche il regista russo Maksim Panfilov, premiato al festival di Montréal per «Ivan figlio di Amir». Durante la seconda guerra mondiale una donna russa fugge da Sebastopoli con i suoi due bambini, dopo che il marito – un ufficiale della Flotta del Mar Nero – è morto in combattimento (o almeno è quello che lei crede). A darle rifugio in un remoto villaggio è Amir, un uzbeko con due mogli: la prende come terza moglie e hanno da un bambino che chiamano Ivan, come l’ufficiale morto. Ma a guerra finita Ivan torna dal fronte, si riprende la moglie e i tre figli (il piccolo Ivan compreso). Quando un terremoto rade al suolo il villaggio uzbeko è la famiglia del secondo marito che si rifugia dall’ufficiale. E la vita continua. Una storia vera – ha spiegato il regista – a dimostrare che già molti anni fa esistevano le famiglie allargate ed era possibile la convivenza fra etnie, culture, sentimenti diversi.
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