CON il suo nuovo romanzo, L’Italia migliore (Bompiani), che ha presentato ieri da Feltrinelli, non ha avuto paura di criticare, anche ferocemente, lo stesso mondo dei reality show che più di una volta l’ha vista protagonista. Ma anche una società, quella italiana, in cui notorietà e cinismo sembrano gli unici parametri di successo e di riscatto, incarnati nel libro da una spregiudicata divetta televisiva in realtà lacerata dalle profonde ferite della sua infanzia. Vladimir Luxuria ne ha parlato con i lettori di Repubblica, ospite della nostra redazione per un forum a cui hanno partecipato Mara Batistini, Margherita Falciani, Gloria Gabellini, Lucia Giantesani, Daniele Marseglia, Filippo Milani, Vittorio Oddone, Antonella Pancani, Chiara Rimmaudo, Eleonora Rontini, Francesco Savoia, Giuliana Secchi, Adele Torchia.
“Spietata, ingiusta, avvelenata l’Italia nell’era del precariato”
L’Italia migliore è il suo quarto libro. Che ruolo ha assunto la scrittura nella sua vita?
«In realtà ho sempre scritto, anche quando ero in politica o facevo teatro. Della letteratura mi piace il feedback molto più graduale rispetto, per esempio, a uno spettacolo o a un’apparizione in tivù: il libro lo scrivi, lo lanci e poi, un po’ alla volta, inizi a condividere le tue emozioni con chi ti legge. Anche per questo ci sono temi, riflessioni più profonde che riesco a tirare fuori solo con questo mezzo: primo fra tutti il rapporto con la famiglia. La scrittura è ciò che resta di “slow” in un mondo in cui tutto va veloce».
Il libro è costruito sull’alternanza tra “città” e “paese”.
«La provincia è, in apparenza, il luogo della tranquillità, dell’assenza di tentazioni; la città quello della corruzione, dell’arrivismo, dello stordimento. Un contrasto che riprende certa narrativa americana del ‘900. Poi, però, si ribalta tutto. Il grande tema del libro è la delusione delle aspettative, anche da questo punto di vista, perché alla fine si scoprirà che il torbido non è avvenuto in città, ma in paese, e per giunta tra le mura domestiche. Proprio come accade in tanti episodi di cronaca ».
Nel romanzo c’è una riflessione forte sulla notorietà, che oggi sembra l’unica occasione di riscatto possibile.
«Nel mio caso, la fama è stata il primo anestetico al pregiudizio. A Foggia, dove sono cresciuta, le persone che prima mi fermavano per insultarmi o per lanciarmi qualcosa sono le stesse che, una volta diventata famosa, hanno iniziato a chiedermi l’autografo, un po’ come Sophia Loren quando tornava a Pozzuoli. Quello che ho capito, però, è che nella vita ciò che conta davvero è avere qualcuno che ti è riconoscente, piuttosto che essere riconosciuto. E’ quello il vero successo: avere anche solo due, tre persone a cui hai dato davvero qualcosa. Oggi invece la popolarità sembra il vero obiettivo, non un effetto collaterale. E la gente fa di tutto pur di ottenere non dico i 15 minuti teorizzati da Andy Warhol, ma anche solo 5 secondi».
L’Italia migliore è pervasa da un senso di precarietà che sembra aver contagiato la nostra società a tutti i livelli, compresi quelli alti.
«Ho scelto di ambientare il romanzo nel mondo televisivo, dove ci sono tanti talenti, persone con una lunga carriera alle spalle, ma anche personaggi che scompaiono da un momento all’altro, magari perché sono cambiati gli assetti politici. Penso agli ex partecipanti ai reality show, che sono un po’ come le anime che incontra Ulisse nell’Ade, lì immobili a domandarsi perché non vengano più invitati da nessuna parte. In realtà, oggi, le dinamiche del reality sono presenti in tanti altri contesti, compreso il mondo del lavoro. Se in un call center in cui sono impiegate dieci persone si diffonde la voce che qualcuno non sarà riconfermato, ecco che parte il televoto: chi sarà nominato? Chi si salverà? E così, tra i lavoratori scatta la competizione, invece della solidarietà. Il precariato è uno dei grandi problemi della nostra epoca e la politica farebbe bene a preoccuparsi di questo, invece che di mandare in galera un ragazzo che viene beccato con tre grammi di hashish».
Alla fine, nel reality raccontato nel libro, il vincitore è un cane, che per giunta fa la cacca davanti alle telecamere.
«Non volevo demonizzare i reality: io stessa li ho fatti, li ho condotti, e uno l’ho anche vinto. La mia è più che altro una critica a un certo arrivismo, al cinismo in virtù del quale, pur di fare ascolti, si ingannano le persone. Quello che mi sono inventata è un format perfido, che non esiste nella realtà, ma non è detto che non ci si possa arrivare: in Giappone c’è già un reality che mette in palio cure mediche e tra poco, in Italia, andrà in onda Mission, dove i vip vengono spediti nei campi profughi ».
Lei è arrivata al successo restando fedele a se stessa.
«La prima notorietà l’ho avuta da adolescente: se arrivavi a Foggia e chiedevi di Vladimir, ti rispondevano “’u ricchione”. Più che visibile, ero proprio fosforescente. Un giorno, a sedici anni, ero con i miei amici gay sulle panchine del viale della Stazione, dove ci riunivamo di solito. Ci stavamo divertendo un sacco, ridendo e facendo imitazioni, quando sono arrivati dei ragazzi che hanno iniziato a sfotterci e, dopo un po’, ad avvicinarsi in modo minaccioso. I miei amici si sono spaventati, qualcuno si è allontanato. Io invece li ho affrontati e ho chiesto loro: “Che problema avete?”. Mi sono beccata un cazzotto in faccia, ma quello è stato in assoluto il mio primo atto politico. Anche oggi, il principio è rimasto lo stesso: non voltarmi mai dall’altra parte quando vedo un’ingiustizia, riguardante l’omosessualità o meno. E credo che si debbano sostenere le proprie idee indipendentemente dal contenitore che le ospita: sia esso il parlamento, o una trasmissione televisiva. Per questo, non mi sottraggo mai a un’intervista, che sia per Repubblica, o per Barbara d’Urso: nel pubblico potrebbe sempre esserci la mamma di un adolescente gay».
Da ex parlamentare, cosa pensa della legge sull’omofobia che sta facendo tanto discutere?
«Non mi piace così com’è, spero si possa rimediare nei vari passaggi tra Camera e Senato. Stabilisce che se compi un atto di omofobia, e sei un comune cittadino, sei passibile di reato, mentre se lo fai come rappresentante di un’associazione o di un partito, no. Ancora una volta la casta. E alla fine basta far parte di un partito, che già di per sé è garanzia di visibilità, per poter dire “meglio fascista che frocio”. Il reato di opinione è abominevole, e noi omosessuali siamo stati i primi a viverlo sulla propria pelle. Ma una cosa è un’opinione, un’altra un incitamento all’odio».
Cosa pensa del nuovo Papa?
«Ricordo la prima volta che l’ho visto in tivù: è uscito dal balcone e ha detto “Buonasera”. Mi ha fatto subito una grande simpatia, soprattutto pensando al suo predecessore, che proponeva di tornare a officiare la messa in latino, dando le spalle ai fedeli. Mi ricordo che don Gallo diceva, negli ultimi giorni della sua vita, “questo sarà un Papa rivoluzionario”. Io all’inizio ero un po’ diffidente, ma più passa il tempo e più mi rendo conto che non c’è mai stato, nella storia, un Pontefice che abbia detto: “Chi sono io per giudicare un gay?”. Un bagno di umiltà che non farebbe male anche a qualche politico. Io non posso pretendere che la Chiesa cambi, ma posso sperare che le persone smettano di vivere il proprio essere omosessuali come un ostacolo al loro diritto alla fede. Quando Bagnasco mi ha offerto la comunione, ai funerali di don Gallo, ho pensato che fosse l’inizio di qualcosa, che anche noi transgender avessimo diritto ai sacramenti ».
(testo raccolto da elisabetta berti, roberto incerti, fulvio paloscia, gaia rau)