ROMA – — “Carlo Lizzani! Uno dei più grandi registi italiani si è tolto la vita. L’unica eutanasia che concede l’Italia agli anziani. Gettarsi nel vuoto”. Ferzan Ozpetek ha scelto un post su Twitter per commentare, dopo aver appreso la notizia della morte del regista. E dopo la conferma che si è trattato di una scelta volontaria: “Ho staccato la chiave”, ha scritto Lizzani in un biglietto lasciato ai familiari.
Che cosa l’ha spinta a scrivere quel commento?
«Il mio è stato uno sfogo, mi è venuto subito in mente Mario Monicelli, anche lui prese la stessa decisione, e anche all’epoca ne rimasi sconvolto. Mi chiedo perché una persona che non ce la fa più non possa morire come vuole, nel suo letto, non possa avviarsi alla fine con serenità, magari anche circondato dall’affetto dei suoi familiari».
La morte di Monicelli agitò giorni di polemiche. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, alla camera ardente del regista, parlò del suo suicidio come di «un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare ». In Parlamento si scontrarono la centrista Paola Binetti e la radicale Rita Bernardini, che invitò l’aula della Camera a riflettere su chi non ce la fa più ed è costretto a lasciare la vita. La sua è una dichiarazione coraggiosa.
«Non sono io coraggioso. Gettarsi nel vuoto è un gesto davvero estremo, quello sì che richiede un enorme coraggio».
Cos’è che le fa più male?
«Quello che mi fa molto male è anche pensare all’immagine del corpo di una persona schiacciato su un marciapiedi, mi sembra un torto alla dignità. Tento di scivolare nel romantico,
cerco di pensare ad altre immagini, a una stella caduta».
Qualcuno su Twitter le ha risposto che gettarsi nel vuoto è l’unica forma di eutanasia “non solo per gli anziani”.
«È vero, il diritto di morire con dignità riguarda chiunque, qualunque età abbia».
Lei era legato sia a Lizzani sia a Monicelli?
«Sono due persone che ho ammirato con tutto il mio cuore, che fanno parte del mio mondo, per questo ho avuto l’impulso di scrivere quelle parole. Ma il tema dell’eutanasia mi colpisce da molto tempo».
Conosce altre vicende simili?
«Vedo troppe persone, amici, conoscenti, che lottano contro il male, ne passano di tutti i colori, sempre più abbrutiti, devastati, sfiniti, li vedo perdere ogni giorno di più il legame con la vita ed è insopportabile».
È la difficoltà di chi vorrebbe essere d’aiuto.
«Certo, chi le ama vorrebbe aiutarle, ma è impotente. È possibile che la soluzione sia solo gettarsi nel vuoto? Ci penso da molto tempo a queste cose, ma soprattutto andando avanti negli anni il problema mi sembra sempre più grave».
(m.p.f.)
Il regista Ferzan Ozpetek, 44 anni
Sul sito, lo speciale multimediale dedicato a Carlo Lizzani con video, fotografie, le locandine dei film e interviste esclusive
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Il maestro che amava sperimentare “Ho usato il cinema per capire l’Italia”
Dai documentari al neorealismo, una vita tra arte e impegno civile
MARIA PIA FUSCO
ROMA – — «C’era una lotta su due fronti: da una parte volevamo un cinema italiano che fosse vero, e non quello vuoto ed evasivo “dei telefoni bianchi”; dall’altra volevamo un cinema che si ponesse come obiettivo una vera rivoluzione della forma e non solo dei contenuti. Io sognavo di fare del bel cinema, indipendentemente dai generi». Così Carlo Lizzani, 91 anni compiuti il 3 aprile, raccontava il clima nel quale mosse i primi passi. Un cinema che segnasse il cambiamento, il passaggio da un’Italia stordita dalla guerra a un Paese consapevole della propria storia. Gli esordi, da sceneggiatore, avvennero accanto ai maestri di quella rivoluzione: Rossellini, Vergano, De Santis, Lattuada. Il debutto, nel 1950, con un documentario dal titolo Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato.
Non aveva mai smesso di cercare storie legate alla realtà, come l’ultima, L’orecchio del potere, titolo inglese The listener, tratto dal libro di Giulio Andreotti Operazione via Appia. Lo aveva annunciato alla fine di giugno, ci teneva molto: la storia di un seminarista che dall’8 settembre al 25 luglio del ’43 lavorava per il ministero degli Interni, intercettava le telefonate dei potenti del fascismo, Mussolini, Badoglio, Petacci compresi. «L’attualità del film è evidente», disse contento, anche perché aveva avuto l’adesione di Al Pacino. Avrebbe dovuto cominciare le riprese alla fine dell’anno. Lizzani era un signore riservato, razionale, con un’ironia sottile e pacata. Non aveva mai smesso di sperimentare. «Mi sono servito del cinema per conoscere il mio paese, la storia, il Novecento », diceva, lui che apparteneva alla generazione di quanti consideravano il cinema anche un mezzo per fare politica. Non a caso fra i suoi primi lavori c’era una serie di documentari sulla realtà italiana — il primo del 1948: Togliatti è ritornato — e il debutto con il lungometraggio fu Achtung! Banditi, sulla Resistenza: il periodo storico sul quale ha più indagato. Nella sua filmografia di oltre sessanta titoli ci sono Cronache di poveri amanti (1954) e Il gobbo (1960), L’oro di Roma (1961) e Il processo di Verona (1963), Mussolini ultimo atto (1974) e Fontamara (1977), Un’isola (1986), Hotel Meina, presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia del 2007 e uscito nelle sale in coincidenza con la Giornata della Memoria del 2008, il 27 gennaio. Il suo spirito di storico gli suggerisce di ricostruire la lavorazione di Roma città aperta in Celluloide, nel 1996. L’attualità lo spinge a girare Svegliati e uccidi su Luciano Lutring (1966), Barbagia, su Graziano Mesina (1969). Senza mai tradire la qualità del cinema, dalla fine degli anni Novanta lavora anche per la televisione con Il caso Dozier e La donna del treno, Maria Josè, l’ultima regina e Le cinque giornate di Milano. E con i documentari aveva ricordato le figure che appartenevano alla storia sua e del cinema italiano, Luchino Visconti (1999), Roberto Rossellini. Frammenti e battute (2000), Giuseppe De Santis (2008).
Con Lizzani il cinema non perde soltanto un grande regista, ma anche un operatore culturale che ha diretto la Mostra di Venezia dal 1979 al 1982 ricostruendola e attirando il pubblico giovane dopo la crisi seguita alla contestazione del Sessantotto. Le sue sono state tra le più riuscite edizioni della manifestazione. «Seppe dare alla Mostra nuove energie», dice oggi il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, «e costruire intorno a sé un nucleo di giovani studiosi che avrebbero rappresentato negli anni successivi una vera élite». «L’aveva rilanciata dopo gli anni bui, lo dico da ex direttore della Mostra che ha approfittato del suo lavoro», racconta Felice Laudadio, che lo ricorda con un aneddoto: «Una volta gli ho fatto i complimenti perché era sempre freddo davanti ai problemi, ma lui ha replicato “sono io che invidio te, perché tu li butti fuori mentre io, a tenerli dentro, mi sono fatto venire l’ulcera”».