Il libro, il più bello sul regista, che esce domani per Bompiani, svela i luoghi segreti dei suoi film. Al Lido si vedrà «Il salario della paura»
«Nel mio Dna non era iscritta qualche particolare attitudine al successo». William Friedkin comincia con una frase provocatoria la sua bella autobiogafia, Il buio e la luce. La mia vita e i miei film (nell’originale, The Friedkin Connection) in libreria da domani, per Bompiani (500 pagg, euro 20, traduzione Alberto Pezzotta). Fin dalle primissime pagine, dedicate alla sua infanzia chicagoana, in una famiglia ebraica arrivata in Usa da Kiev in seguito al pogrom del 1903 («I maschi avevano la pelle scura e I baffi a manubrio. Le donne erano piccole e tarchiate. Le loro case puzzavano di gefilte fish, cavolo, aringhe affumicate e vestiti sporchi» scrive l’autore) il libro restituisce la stessa intensissima, vividezza dei suoi grandi film. La stessa capacità di catturare l’anima di un qualcosa, o qualcuno, in pochi dettagli. La combinazione di generosità e spietatezza.
Friedkin descrive un’infanzia modesta, in una città sotto il controllo di una potente «macchina democratica» (che gli diede il primo lavoro: vendere bottigliette di soda allo stadio di baseball Wrigley Fields, anche non aveva l’età per un impiego), le visite al cinema il sabato pomeriggio (quasi sempre cartoon), la scoperta , nel Southside, della musica (importantissima per il suo lavoro a venire) -Muddy Waters, Bill Evans, John Coltrane. L’innamoramento per il basket, i drammi radiofonici e un totale disinteresse per la scuola («non andai al college non perché eravamo poveri, ma perché non avevo motivazione. É un miracolo che non finii in prigione o per strada come molti miei amici, Ma Chicago mi aiutò a formare un sistema di valori e un’etica del lavoro». E ancora: «Quando Marcel Proust immerse un dolcetto in una tazza di te, il sapore scatenò in lui i ricordi di un’infanzia passata in una cittadina della provincia francese. Per ottenere la stessa esperienza a me basta una fetta di pizza al taglio della pizzeria Uno di Rush Street, o un panino di segale con bratwurst della tavola calda del Berghoff’s Restaurant sulla Adams…»).
Più giovane della generazione di registi Usa che si sono formati nella tv anni ’50 (Penn, Frankenheimer, Altman…)e lievemente più vecchio di quella delle scuole di cinema (Spielberg, Coppola, Lucas..), Friedkin ha fatto delle sue origini Midwestern e del suo approdare obliquo, quasi casuale, al cinema (tutto – leggerete – è cominciato grazie all’incontro con il cappellano del braccio della morte di un carcere), un punto di forza, che gli ha dato la capacità di posizionarsi dal punto di vista di un outsider, anche nei momenti più di successo della sua carriera hollywoodiana.
Dagli incontri con alcuni mentori importanti della sua gioventù, all’arrivo a Hollywood (dove si mise a fare documentari dopo il magnifico esordio The People Versus Paul Crump realizzato a Chicago) agli alti e bassi della sua lunga, avventurosissima love story con il cinema, Friedkin instilla nel suo racconto una sottile nota di sorpresa, come se guardandosi indietro oggi sia stupito anche lui che le cose siano andate in questo modo. Non a caso, destino, fede e i loro rispettivi misteri, sono leit motiv che tornano spesso nel libro – la ricerca che attraversa tutti I suoi film descritta, pagina dopo pagina, come un cliffhanger la cui soluzione si trova inevitabilmente non al termine del progetto a cui sta lavorando ma in quello successivo.
Non è un caso che l’inseguimento sia la figura chiave del cinema di Friedkin, che è un autore curiosissimo, irrequieto e ambiziosissimo in tutto ciò con cui si confronta, ancora oggi.
La lotta contro il rating board che ha dato un NC 17 (divieto ai minori di 17 anni, ndr) a Killer Joe, è condotta con la stessa determinazione delle battaglie fatte al fianco di Blatty per mantenere la scena della masturbazione con il crocifisso in L’esorcista con cui, in barba al sindacato e alla Lorimar, ha scritturato le comparse per Cruising in uno dei gay bar più hard core di NY, con cui ha diretto una delle cerimonie degli Oscar catastrofica, alla spericolatezza con cui a girato il miliare inseguimento auto/metropolitana di Il braccio violento della legge o quella con cui a liquidato Steve McQueen che voleva interpretare Il salario della paura (Sorcerer) ma non in Ecuador (decision che ha rimpianto più volte).
Da Hitchcock (che lo umiliò facendogli notare che non indossava la cravatta), a Blake Edwards (a cui disse che Peter Gunn era uno script orribile) al consiglio d’amministrazione della Paramount (sono loro nella foto che campeggia nello sgangherato ufficio della terribile compagnia petrolifera in Sorcerer), non c’è mostro sacro o autorità che tenga per Friedkin. É difficile immaginare un giovane regista contemporaneo così radicalmente disinibito verso i poteri come Friedkin è stato dai tempi in cui è approdato a Los Angeles, in una stanzetta dell’hotel Sunset Marquis.
La sua profonda irriverenza e il suo humor sono in ogni pagina di Il buio e la luce. Su Billy Friedkin sono stati scritti molti libri. Ma questo è di gran lunga il piu bello.