Dalla rassegna stampa Cinema

CLOUDS ATLAS - Pasticcio epocale in un mondo da post apocalisse

…si può godere moltissimo di un film infantile e presuntuoso come Cloud Atlas, guardarlo incantati come fosse Topolino alla conquista dell’Universo, e tornare a casa con la testa in fiamme, corroborati da una filosofia da Voyager…

Se lo spettatore decide che non è necessario districare il casino epocale che sta arruffandosi sullo schermo, e per di più per tre ore; se non gli si rizzano i capelli in testa quando in un negozio di porcellane un giovane scozzese degli anni 30 dice «capisco che rumore e suono sono convenzionali », o una fanciulla nella Seul del 2144 sussurra «non importa se nasciamo in un tubo o in un utero»; se non si scoppia a piangere quando appare un orribile cannibale postapocalisse (anno 2321) tutto dipinto e con denti marci e si viene a sapere che si tratta del nostro irriconoscibile innamorato anni 90 Hugh Grant: ecco, allora si può godere moltissimo di un film infantile e presuntuoso come Cloud Atlas, guardarlo incantati come fosse Topolino alla conquista dell’Universo, e tornare a casa con la testa in fiamme, corroborati da una filosofia da Voyager.
Ispirato a un fantaromanzo dell’inglese David Mitchell (appena ripubblicato da Frassinelli) e definito infilmabile quindi subito filmato dai famosi americani Lana e Andy Wachowski, quelli di Matrix, e dal tedesco Tom Tykwer, quello di Lola corre, costato irresponsabilmente 100 milioni di dollari, Cloud Atlas può rivelarsi il film di questo momento di penuria, visto che con la spesa di un solo biglietto è come vederne intrecciati sei e mezzo: purtroppo con gli stessi attori impegnati a cambiare storia, epoca, personaggio, luogo, sesso, carattere e un pessimo trucco che li mortifica. Su un imprecisato pianeta di un imprecisato futuro un nonno guercio e pelato racconta a una folla di nipotini che «le anime possono migliorare nei secoli, altre no», cioè appunto, nulla si crea e nulla si distrugge. Quindi: 1849 un giovane idealista antischiavista viaggia su un veliero nei mari del Sud Pacifico pieno di crudelissimi ceffi. 1936, in Scozia due giovanotti escono dallo stesso letto e uno dei due sogna di diventare un grande compositore. 1973, a San Francisco un’intrepida reporter rischia la vita per impedire non si sa quale disastro universale. 2012, Inghilterra, un editore sfortunato viene rinchiuso in una specie di manicomio mentre un suo autore butta dal terrazzo il critico che l’ha stroncato (applausi in sala). 2144 a Seul una clone molto carina che fa la cameriera in un fast food conosce l’amore ma fa la fine dei cloni. Poi viene il bello: 2321, imprecisate montagne postapocalittiche, un tonto pastore di capre in maglia sbrindellata oggi di gran moda, viene abbordato non si sa perché dall’emissaria di una civiltà superiore in tuta aderente bianca di fashion più scomoda ma mercantile, e dopo un macello coi cannibali a cavallo da cui escono vivi, si torna all’inizio: il pastore è diventato vecchissimo, pelato, con barba e un solo occhio, l’emissaria è sempre bella, e si presume che con tutti quei nipotini, qualche accoppiamento interstellare tra loro sia avvenuto.
Siccome gli attori, da Halle Berry a Susan Sarandon, da Jim Broadbent a Hugh Grant e tutti gli altri, sono costretti dai vari ruoli ad essere quasi sempre irriconoscibili, ecco che il film offre anche questo gioco da settimana enigmistica, per esempio: chi è il dottore spiritato e assassino del 1848, e l’avido gestore di una locanda del 1936, e il presidente di una centrale nucleare nel 1973, e uno scrittore criminale nel 2012 e finalmente il rozzo capraio nasone e poi il centenario apocalittico? Ma è sempre lui, il povero divo Tom Hanks, che in ogni versione appare pessimo, oltre che bruttissimo.

VOTO: 4/6

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