Venezia – Era il capolavoro annunciato, il film già prenotato per il Leone d’oro, l’opera indiscutibile capace di mettere d’accordo tutti. Dopo averlo visto in prima mondiale alla Mostra, forse non andrà così. Diciamolo: “The Master” ha deluso. Applausi prolungati ieri sera in Sala Grande, dove nessuno fischia mai nessuno, ma qualcosa non funziona nel nuovo film del 42enne Paul Thomas Anderson, il regista cult di “Boogie Nights”, “Magnolia” e del “Petroliere”. Troppo lungo e autoreferenziale, non si capisce bene a chi si rivolga e per raccontare cosa, benché formalmente ineccepibile: girato in 70 mm, la fotografia smaltata, la ricostruzione anni Cinquanta perfetta, i due protagonisti, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, impegnati in un’istrionica gara di bravura nei ruoli dell’allievo e appunto del maestro.
Non che sia mancata l’atmosfera delle grandi occasioni. Mai così pieno, neanche per George Clooney, Madonna e Johnny Depp, il salone delle conferenze stampa, con cronisti in piedi e tifo da stadio, dopo le lunghe file di prima mattina verso la Sala Darsena. Però, a mano a mano che il film si srotolava nei suoi 137 minuti, s’è capito che il miracolo non si sarebbe compiuto: in platea troppi sguardi ai cellulari e agli orologi, troppi sbadigli.
Anderson lo vede come «una storia d’amore tra due persone», non omosessuale o forse sottotraccia; soprattutto spiega che «la vicenda potrebbe essere ambientata ovunque nel mondo, non solo in America: c’è un mentore e c’è un allievo, e il primo soffre quando il secondo lo abbandona». Il regista la fa semplice. In realtà “The Master” è stato preso, in patria, come un attacco indiretto ma insidioso a Scientology e al suo fondatore L. Ron Hubbard, teorico della cosiddetta Dianetica. C’è del vero, nel senso il film è disseminato di riferimenti maliziosi alla famosa/chiacchierata setta o chiesa che sia: dal nome della moglie Mary Sue alle riunioni di adepti in yacht, e poi date, parole d’ordine, pratiche “mediche” punite dalla legge, teorie fumose e variabili, fondamenta scientifiche risibili. «Ho fatto vedere il film a Tom Cruise, il resto della storia riguarda noi due» taglia corto il regista, e pare di capire che la star, affiliata a Scientology come Travolta e parecchi altri a Hollywood, non abbia gradito affatto. Tema chiuso. Joaquin Phoenix, fedele all’immagine di star maledetta di nero vestita, fa scena muta o quasi, allontanandosi pure dal tavolo; mentre il più simpatico Philip Seymour Hoffman, con cappellino da baseball d’ordinanza, dice che «ambedue i personaggi sono bestie selvatiche che vorrebbero addomesticarsi, ma restano nel fondo selvatiche».
Freddie Quell e Lancaster Dodd i nomi dei due. I loro destini si intrecciano nell’America dei primi anni Cinquanta, quando l’uno, un ex soldato della Marina ossessionato dalle tette, furente e sbandato, sale di nascosto sul piroscafo dove il secondo, carismatico fondatore della Causa, tiene seminari su come governare gli impulsi negativi e le forze oscure in chiave anti-psichiatrica, acquisire il controllo della propria vita, perfino curare alcune forme di leucemia. Imbroglione e arrivista? Probabilmente sì. Ma anche mistico seducente, circondato da un culto ferreo che sembra affascinare il derelitto Freddie dalla postura rigida e dalle spalle incurvate.
“The Master” racconta, nell’arco di sei-sette anni, lo strano rapporto di dipendenza che si crea tra i due uomini, diversi per censo e tuttavia simili negli scoppi d’ira, se non fosse che Freddie, cavia e protegé insieme, picchia duro chiunque osi mettere in discussione l’autorità del Maestro. Anderson è regista visionario ed epico, compone immagini di una bellezza addirittura struggente, restituisce l’ambiguo filo di complicità che cuce l’esistenza dei due: «Non padre e figlio, neppure padrone e servo, ma persone all’interno di un romanzo d’amore» precisa il regista.
Un po’ come succedeva nel “Petroliere”, l’andamento lento si nutre di dettagli bizzarri, dialoghi enigmatici, rabbie incontrollate. Si sente che il regista ha messo a punto un proprio stile espressivo, ma il film sembra parlare solo al suo autore, è complicato più che complesso, si affloscia nella parte centrale per risollevarsi nel finale, dove la separazione definitiva viene giocata sulle note della romantica “On a Slow Boat to China” cantata dall’affranto maestro all’allievo furbetto, che saprà subito consolarsi con una popputa inglesina da pub.
Francamente in molti, a fine proiezione, si rifugiavano nella formula classica: «Devo pensarci». Pensiamoci pure, in attesa che esca l’11 gennaio distribuito da Lucky Red.