ROMA — A Elio Germano, Ferzan Özpetek ha dedicato perfino il titolo: la Magnifica presenza è la sua. Domani su Sky si conclude Faccia d’angelo, la fiction sul bandito Felice Maniero, e il 13 aprile l’attore sarà un giornalista in Diaz di Daniele Vicari, sul pestaggio della polizia al G8 di Genova. Tre film tutti in una volta per l’attore considerato il numero 1 della sua generazione, quello che si mimetizza e sembra tutto naturale; nel primo recita in siciliano, nel secondo in veneto, nel terzo in genovese? «No in tosco-emiliano. Io non credo nella lingua italiana, la parlano solo gli attori di teatro e i professori universitari. E non credo nel dialetto quando non serve a niente. Ma noi siamo anche il modo in cui parliamo, se Maniero si chiedesse forbito: hai preso la droga?, non sarebbe credibile». Le dicono ancora che lei è il Robert De Niro italiano? «In questa occasione no, ma sottoscrivo quello che ha detto: meno conosci l’uomo, più credi nell’attore».
Elio, che a 31 anni ha girato 29 film e 11 fiction, è uno che dice «noi» più che «io», si nasconde sotto la pelle che indossa, ha una vocazione all’identificazione con il personaggio che è estranea alla tradizione italiana. Migliore attore nel 2010 a Cannes con La nostra vita, ha una sua visione del mondo forte, libera, forse utopica, che applica ogni giorno nel lavoro. Ha esordito a 14 anni con il teatro di strada, continua a farlo: «Ho recitato in piazza Verona caput fasci, sul gruppo di estrema destra che uccise un ragazzo colpevole di avere i capelli lunghi. Ci fu un antefatto al consiglio comunale. Uno spettacolo a sfondo sociale, esteticamente povero, non pensato per un teatro. Volevo restituire un fatto di cui non si parla più. Se c’è un’utilità nel mio mestiere, è questa. Quello che mi piace è essere a disposizione di un progetto collettivo, il set è fatto di tante professionalità, se il regista fosse uno scrittore, io sarei l’inchiostro della sua penna. All’inizio non pensavo di fare l’attore, era un modo per impegnare il tempo libero. È il passaggio in tv che crea il rapporto diverso, la gente ti vede come un elettrodomestico di casa, una sua proprietà».
In Magnifica presenza è un pasticcere che sogna di diventare attore: «La scena dei provini per gli spot, profilo destro profilo sinistro, l’ho vissuta mille volte, nel film mancano le file interminabili di ore e ore». È anche una storia di apparizioni, di fantasmi: se lei potesse riparlare con qualcuno che ci ha lasciato… «Non sai quanti ne avrei, in ogni mestiere. Nel mio, Pasolini, Fellini, De Sica… Gli chiederei com’era il cinema di una volta. Ma il mio lavoro è un dialogo con i fantasmi, l’illusione di convincere il pubblico di cose che non esistono». Tre personaggi che non hanno nulla in comune, l’omosessuale in Özpetek, Maniero, il giornalista in Diaz: come li ha preparati? «Ogni volta in maniera diversa. Non credo nei metodi. Diaz ha ruoli corali, il mio vede le cose da un punto di vista diverso, sono estraneo al G8. Il pasticcere deve mostrare lo stupore rispetto al mondo, lui è un puro. Maniero l’ho preparato in modo contrario, è un calcolatore, freddo, razionale: dovevo tenere tutto sotto controllo». L’ex bandito ha polemizzato, non si è ritrovato. «È paradossale, ha detto, non seguite l’esempio della fiction. Come se l’esempio buono fosse il suo. Mi è dispiaciuto che alle critiche si siano uniti i familiari delle vittime. Una società che affida l’educazione delle persone alla tv, è una società fallita. Il male non nasce dall’emulazione di chi vede un film, ma di chi non ha più uno stipendio e in certi posti si fida più del criminale che dello Stato».
Di Elio deve ancora uscire Padroni di casa, lui e Mastandrea sono due operai, c’è Gianni Morandi che interpreta un famoso cantante e sua moglie, Valeria Bruni Tedeschi, colpita da ictus. «Non sono contro le commedie, ho bisogno di un personaggio a cui attaccarmi e non penso se fa ridere o piangere». Nel 1960, a Natale uscì La Ciociara; oggi il cinepanettone. «Uscivano altri 30 film nello stesso giorno, ora se ne fanno pochi, non si riesce a riconoscere il talento ed è il produttore che dice al regista cosa deve fare, una volta era l’opposto».
Elio è il cofondatore di 7.06.07, l’associazione degli attori che vogliono dire la loro. «Un modo di parlarci, di informarci sui nostri diritti». I nuovi attori di cinema recitano a teatro. «Sì, ma fanno fare il monologo a me, non al me di dieci anni fa, dov’è lo spazio per le promesse?». Che idea si è fatto del pastrocchio del Festival del cinema di Roma, dove si è esercitata la peggiore politica? «Non è che prima avessi un’idea sana e ora è negativa, ho sempre avuto delle perplessità; lì si pubblicizzano film americani usati come vetrina commerciale piuttosto che appoggiare le forze creative della città. Non a caso il suo primo anno coincise con la chiusura del centro culturale Angelo Mai. Stesso discorso per la protesta al Teatro Valle dove si gestisce la cosa pubblica col pubblico inteso non come spettatore ma come cittadino. Ora le nomine Rai: perché i vertici non dovrebbero sceglierli tramite Internet i contribuenti abbonati, tutti noi azionisti di questo bene comune, anziché politici incompetenti eletti non si sa su quali basi?».
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