Dopo due opere queer effervescenti e provocatorie come “Hedwig” e “Shortbus”, in realtà caratterizzate da una forte malinconia di fondo, il regista gay John Cameron Mitchell dà una virata al suo cinema nel nuovo, meditato lavoro “Rabbit Hole” tratto da un’apprezzata pièce teatrale di David Lindsay-Abaire, premio Pulitzer nel 2007. Tema non facile: l’elaborazione del lutto da parte di una coppia di quarantenni benestanti dilaniati dal dolore dopo la perdita del figlioletto di quattro anni, investito da un’auto nei pressi di casa otto mesi prima. La mamma reagisce cercando di liberarsi fisicamente degli oggetti che ricordano il bimbo, frequentando un ragazzino che si mette a pedinare, distraendosi con la cucina e la cura del giardino; il papà vive di ricordi, rivede infinite volte i video col bimbo sul telefonino, non vuole liberare la stanza del figlio dai suoi giocattoli.
Lei è Nicole Kidman, visibilmente danneggiata in volto da sciagurati cesellamenti chirurgici, nominata all’Oscar soprattutto per aver saputo esprimere con calibrata misura una tortura sommessa e lacerante, che esplode in rabbia nei gruppi di supporto o quando entra in conflitto con la madre (un’esemplare Dianne Wiest, la migliore del cast). Lui è meno noto, si chiama Aaron Eckart e l’avevamo scoperto in un curioso film d’autore sul machismo, “Nella società degli uomini” del pressoché dimenticato Neil Labute. Un bellone dalla mandibola possente e un’espressione vagamente intontita che a dire il vero non genera tutta quell’alchimia che ci voleva con una partner di tale rango (eppure hanno pure vissuto insieme durante le riprese, condividendo pure lo stesso bagno).
Con uno stile antitetico rispetto ai film precedenti, John Cameron Mitchell – che da adolescente ha perso tragicamente un fratello – evita cromatismi e sottolineature musicali preferendo giustamente una regia sobria e rigorosa, riuscendo a evitare compiaciute scene patetiche ma rimanendo fin troppo ‘sospeso’ per paura di rischiare eccessi melò, con l’effetto però di rimanere sul descrittivo e conferire al tutto una patina di algida distanza che non facilita il coinvolgimento dello spettatore.
Momento poetico: la fuga immaginifica del ragazzo nella realizzazione del fumetto che dà il titolo al film (una passione grafica che il regista aveva già esplicitato in “Shortbus”) e che rappresenta una sorta di dono catartico alla madre per placare il devastante senso di colpa.
“Rabbit Hole” è visibilmente debitore della sua origine teatrale: gli ottimi dialoghi sono la sua forza ma anche un evidente limite, frenato com’è nella resa cinematografica senza particolari guizzi o idee davvero ‘diverse’ che facevano l’originalità dei suoi film precedenti.
Si può vedere.