Non ha un nome, si chiama solo N., la protagonista di L’imbalsamatrice. Un anonimato voluto, non del tutto comune per una storia inventata, ma che ben disegna una donna qualsiasi, sfrontata e non omologabile alle sue coetanee, di fantasia quanto basta a raccontarne vizi e virtù, senza virare sulla sociologia generazionale. Imbalsamatrice di persone defunte, armata per lavoro di conservanti e belletti, N, esprime la sua vitalità cercando il corpo dei vivi con una voracità complementare, quasi riparatrice, ingenua e innocente. Ha bisogno d’amore, ma si consuma in amplessi bisex, il suo lavoro non promette carriere né lei ne insegue, sfugge a una madre invadente e fin troppo normale, non ha identità definita né la cerca. Vive nel presente, consapevole della sua vulnerabilità.
Personaggio non di routine N., giovane donna scanzonata e in qualche modo estrema, evoca con qualche paradosso un aspetto diffuso nelle donne contemporanee: emancipate, disincantate eppure sempre incerte su se stesse, quando non in carriera sul modello maschile o eternamente in fuga dalla noia. Decise per istinto a salvaguardare la propria diversità e, insieme, impossibilitate a renderla piena, soddisfacente. Libere e nello stesso tempo ingabbiate in una ricerca di sé, mai destinata ad andare a buon fine. Ma L’imbalsamatrice (in libreria per Gaffi editore), non pretende (per fortuna) di fare di tutto questo un manifesto; offre solo una storia costruita intorno a N. impegnata a esorcizzare a modo suo il labile confine tra la vita e la morte. Mentre il resto lo fa soltanto percepire, con ironia e con un linguaggio dalle venature hard boiled che non si prende mai sul serio e resta invece incollato alla trama.
Con L’imbalsanatrice Mary Barbara Tolusso, che cura una rubrica di poesie nell’Almanacco dello Specchio (Mondadori), ci regala un godibile e riuscito prodotto dei nostri giorni.
Romanzo divertente e trasgressivo il suo. Come è nato?
Molto naturalmente. I miei familiari si occupano di pompe funebri, quindi non avrei dovuto fare troppa fatica per ideare l’ambiente, anche se il lavoro di ricerca dietro il romanzo è stato piuttosto impegnativo. Ho studiato a lungo tecniche di imbalsamazione, pratiche antiche, moderne e avveniristiche case funerarie. Mi ero prefissata la sfida paradossale di rendere divertente quell’assolutamente tragico che è la morte. Da qui l’idea di un personaggio ironico in grado di attraversare tutta una serie di avventure – erotiche, trasgressive, provocatorie – sullo sfondo costante della fine. Vivendo da molti anni a Trieste, che vanta una nutrita popolazione di anziani, almeno da recenti statistiche, ho trovato che fosse il luogo ideale per fare muovere la protagonista che di mestiere, appunto, fa l’imbalsamatrice. Era necessario inoltre ideare una modalità di scrittura che evitasse le insidie dei luoghi comuni sul tema. Da qui una prosa nervosa e frantumata a imitare il caos delle nostro esistere.
La trama in poche righe….
Il libro parla di una giovane donna che ha ben poco in comune con le sue coetanee. Di giorno lavora in un laboratorio asettico in mezzo ai cadaveri, li rende belli per il loro ultimo saluto, mentre la notte reclama la vita e va in cerca di corpi che esaudiscano la sua energica sessualità. Sullo sfondo, appunto, c’è una sonnacchiosa Trieste che assiste indulgente alle divagazioni erotiche della protagonista. Figlia di un uomo che in punto di morte non ha meglio da sussurrarle che un lapidario: “Non farti fregare”, N. fa di questo lavoro una sorta di irriverente meditazione di cui vengono messi a parte soltanto i cadaveri con cui chiacchiera. Il resto del tempo lo trascorre da Martin, un locale equivoco per sole donne, anche se la sua natura è bisex e l’unico individuo di cui si sia innamorata è un uomo. Intorno a lei una costellazione di caratteri femminili eterogenei e a volte bizzarri. Il tema principale è l’abbandono, della vita come di una relazione, ma anche il terrore di abbandonarci ai sentimenti preferendo talvolta un’esistenza da cadaveri.
L’imbalsamatrice è una donna particolare e anticonformista. Lei è una giornalista-scrittrice, come vede le donne di oggi?
Le vedo esposte a tutta una serie di squilibri tra la loro dimensione diurna – solare attiva intraprendente – e quella notturna, più fragile, trasgressiva e indolente. Basta affacciarsi in un locale notturno per prendere atto di una lunga fila di donne, magari fresche di divorzio, che combattono con la volontà di farsi amare e il timore di essere imprigionate, fraintese, tradite. Questa loro complessità è una virtù e una chance che però a contatto con il mondo maschile può diventare penalizzante perché costrette a misurarsi con la maggiore semplicità, talvolta più efficace, degli uomini. Ciò invece che delude è constatare che donne che si affermano e che acquisiscono potere, risultino spesso essere una mera imitazione dell’universo maschile. Nessuna donna dovrebbe rinunciare a quella dimensione di fragilità che è fonte di complessità e quindi di ricchezza. In tal senso per difendersene un po’, senza privarsene, penso che l’ironia possa essere una delle risorse migliori. E non è un caso se sul registro dell’ironia ho cercato di far muovere la protagonista dell’Imbalsamatrice.