Dalla rassegna stampa Personaggi

L´unica doppia vita di Annie - Annie Leibovitz tra foto e segreti di famiglia

Fotografa dei divi, fotografa glamour, fotografa di successo e ora in crisi finanziaria. Ma dietro la Leibovitz pubblica ce n´è un´altra: quella delle sue città, i figli, il padre, il fratello E la Sontag, la grande amica e amante alla quale rimase accanto fino alla fine. Ora un libro per …

Le sue azioni sono le migliaia di scatti accumulati in quarant´anni di carriera da ritrattista superstar delle icone superstar. Attori, politici, rocker, atleti: nel portafogli della fotografa di punta di Rolling Stone e poi di Vanity Fair figurano solo grandi vincenti. Si entra a invito, qualche volta anche pagando (centomila dollari per una sola seduta) ma ci si garantisce l´impagabile dividendo della celebrità consacrata. Per questo il temuto crollo del Pantheon Leibovitz (per ora scongiurato da una dilazione in extremis) ha spaventato gli osservatori come un nefasto presagio di declino del sogno americano.
Qualcuno però ha sofferto di meno per questi suoi guai. Non piace a tutti la spigolosa Annie, l´irraggiungibile Annie, l´irascibile Annie. «Forse questa crisi le farà bene», ha commentato gelida il critico fotografico del Times, Joanna Pitman. Gli ingredienti poco simpatici del suo tocco magico, del resto, sono noti. Perfezionismo ossessivo: centinaia di scatti, prove e riprove prima del risultato che la soddisfi. Grandeur hollywoodiana e costosissima di molti suoi set, quasi mai in studio e sempre più spesso pieni di accessori bizzarri e introvabili, piogge e nevi artificiali, animali esotici (per non dire delle decine di galloni di latte tiepido in cui fece nuotare Whoopi Goldberg). Sfrontata sicurezza dei suoi giudizi estetici: sfidò il delitto di lesa maestà chiedendo alla regina Elisabetta di togliersi la corona perché la trovava troppo dressed up, troppo formale. Tirannia implacabile delle sue sedute, interminabili fino allo sfinimento: chiedere ad Arnold Schwarzenegger, lasciato semiassiderare in t-shirt per ore sulle cime nevose dell´Idaho. Ne esce un teatro delle meraviglie senza scopo, un´esteriorità senza spessore, un mondo di cartapesta placcata d´oro: così almeno pensano di lei (alcuni lo scrivono) i critici severi.
Ma c´è un´altra storia dietro le quinte, sotto lo smalto luccicante. È la storia di Anna-Lou Leibovitz di Waterbury, Connecticut, dinoccolata occhialuta e ambiziosa ragazza della provincia americana del dopoguerra (sessant´anni compiuti due giorni fa), figlia di un aviatore militare e di una danzatrice, come dire di creatività e disciplina. La storia dei suoi affetti, dei suoi difetti, delle sue passioni e dei suoi dolori mai confessati. Una storia svelata d´improvviso al mondo solo tre anni fa, e finalmente ora anche ai suoi ammiratori italiani, da un volume poderoso che si presenta come Fotografie d´una vita, ma che in realtà ne racconta solo una piccola parte, quella più intensa e tormentata, dal 1990 al 2005. Ovverosia gli anni trascorsi al fianco di Susan Sontag, sua amica e amante (ma guai a dire compagna o partner), guru e maestra.
S´incontrarono nel 1989, già all´apice delle rispettive carriere, per un ritratto da retrocopertina (quello di L´Aids e le sue metafore). Opposte, s´attrassero di colpo: la fotografa jet-set dei divi e la saggista radical del Greenwich Village, la donna delle immagini e quella delle parole; le dividevano sedici anni e due mondi. Sontag disse: «Sei brava, ma puoi fare di meglio». E Leibovitz incredibilmente non s´arrabbiò. Vissero in simbiosi affettiva e intellettuale per un quindicennio. Le loro case neoclassiche sull´undicesima strada stavano spalla a spalla, poi ne affittarono una assieme a Parigi, vista Senna. Viaggiarono molto, scrivendo e fotografando, volevano ricavarne un libro, il Libro della bellezza. Poi un cancro divorò Susan. Sei settimane dopo, se ne andò anche Samuel, il padre di Annie. Lei li fotografò entrambi sul letto di morte, «quasi in trance», tra le lacrime. Aveva cercato di vietarselo. Non ci riuscì. «Sapevo solo che dovevo farlo. Non puoi mai smettere di essere fotografa». Persino quando partorì col cesareo Sarah, la prima delle sue tre figlie (tutte concepite senza notizia di un padre, le due gemelle Susan e Samuelle con l´aiuto di una madre surrogata) l´anestesia non le impedì di sollevare la Leica sopra il telo del chirurgo.
Le venne poi voglia di fare un volumetto di ricordi intimi, qualche copia da donare agli amici comuni, con quelle immagini strazianti, che credeva poche. Dalle scatole di provini traboccò invece una quantità travolgente di immagini private, scattate e poi dimenticate. Scossa dal ritorno del tempo perduto, l´algida Annie, l´impenetrabile Annie, scelse di mostrarsi a tutti. Di esibire La vita di una fotografa, come suona il titolo originale di quella che all´inizio fu una mostra, accolta con attenzione e sconcerto dai critici, con sorprendente passione dal pubblico. Centinaia e centinaia di scatti in grossolano ordine cronologico, senza distinzione fra momenti privati e lavori professionali, intimità e palcoscenico, spontaneità e artificio. «La mia vita è una sola, il lavoro su commissione e le foto personali ne fanno parte in eguale misura».
Come darle torto? Ogni vita è «un mix esoterico», solo le agiografie scorrono lisce come l´olio. Ma che spaesamento: Nicole Kidman sirenetta dorata, volta la carta e c´è la smorfia di dolore di Susan dopo la mastectomia; mamma e papà Leibovitz curvi e anziani sparecchiano la cucina, volta la carta e c´è Scarlett Johansson languida odalisca. Il contrasto è quasi intollerabile, vien voglia di ribellarsi a questa apparente schizofrenia, di scegliere la “verità” dello sguardo privato contro la “falsità” di quello commerciale, la carne contro la plastica, il ruvido contro il liscio, la terra contro le stelle, le lacrime contro il make-up. E ad essere onesti, la commossa Annie delle sequenze in bianconero, degli splendidi ritratti intimi di Susan, delle carezze visuali a genitori, fratello e figlie, sembra davvero più sincera e profonda della superpagata professionista Ms. Leibovitz. Alla quale è stata spesso rimproverata, non senza ragione, la rinuncia a uno stile riconoscibile (non la rudezza di un Karsh, non l´apparente cinismo di un Avedon, non la calligrafia di un Newman) a favore di un eclettismo lasciato all´intuizione del momento, capace di produrre colpi di genio (l´abbraccio di John Lennon nudo e latteo a Yoko Ono vestita di nero, preso sei ore prima dell´omicidio dell´ex Beatle), celebri trasgressioni (il nudo di Demi Moore vistosamente incinta, che Sontag pretese e ottenne di far finire sulla copertina di Vanity Fair), istanti di intensa introspezione (uno splendido Al Pacino in una scura stanza spoglia); ma anche pose prevedibili (Bill Gates davanti a un computer), stucchevoli cliché (Cindy Crawford come Eva abbracciata a un serpente) e originalità divertenti ma senza spessore (Jack Nicholson che gioca a golf in vestaglia e ciabatte).
Difetti che svaniscono d´incanto nel suo lavoro privato e segreto, preso a mano libera, con macchine di piccolo formato, senza stage, «senza l´obbligo di dover scattare», foto affettive, da album di famiglia, destinate alla memoria privata e all´intimo rimpianto. Ma anche nei paesaggi, sparsi nel libro a mo´ di parentesi, per allentare la tensione narrativa; e soprattutto nei rari, duri reportage, come quello nella Sarajevo sotto assedio, dove Susan la portò per aiutarla a sfuggire all´intossicazione da glamour e insegnarle a «spogliare la realtà».
Ma non sarebbe giusto né rispettoso. C´è una sola Annie Leibovitz, e lei stessa ci sfida a prenderla tutta, o lasciarla. Questo diario è «la cosa più vicina a me tra tutte quelle che io abbia mai fatto». Ci chiede di apprezzarla solo così, tutta intera. Ma forse vuole dirci qualcosa di più. Questo catalogo di un quindicennio di vita, del resto, è stato composto «come se Susan fosse dietro le mie spalle», e Sontag è l´autrice di saggi fondamentali per comprendere la fotografia. Questo libro di poche parole ci spiega semplicemente che è tutta quanta la fotografia (la sua storia, la sua ambiguità) che dobbiamo accettare, senza snobismi, se vogliamo avere in cambio qualcosa da lei. La fotografia che inganna e quella che rivela, quella che racconta e quella che finge, quella che inquieta e quella che appaga, sono in fondo la stessa cosa: lo specchio fatato che lusinga le nostre brame e, sull´altra faccia, quello impietoso che ci svela la nostra fragilità.

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