Non fosse stato per Keanu Reeves, probabilmente, pochi nostalgici ricorderebbero “L’ultima volta che mi sono suicidato”, il film di Stephen T. Kay sulle disavventure amorose di Neal Cassady e la sua amicizia dissoluta con Jack Kerouac. Era il 1997. Prima di quella data bisogna tornare indietro di 18 anni, fino a “Heart Beat” di John Byrum, per trovare un attore del calibro di Nick Nolte nei panni maudit degli irriverenti del Greenwich Village.
L’industria hollywoodiana non si è mai davvero appassionata alla beat generation. Nel ‘91, quando uscì “Il pasto nudo” di David Cronenberg, trasposizione visiva del vagabondaggio intellettuale di William Burroughs, l’interesse dei critici si appuntò sulla novità in modo inversamente proporzionale a quello del pubblico.
Per non parlare di “Beat”, il lungometraggio interpretato nel 2000 dall’ex signora Cobain Courtney Love, applauditissimo al Moscow International Film Festival ma praticamente ignorato perfino dai circuiti d’essai. Ora però, la quarantena sembra finita. Almeno a giudicare dall’affollamento delle cinematografiche impegnate sul set di ben tre film dedicati a quei figli ribelli della guerra fredda che, a colpi di allucinazioni poetiche e reali provocazioni, rovesciarono come un calzino la società americana degli Anni Cinquanta.
Il titolo più atteso è “On the Road”, non fosse che per la citazione letteraria dell’indiscussa Bibbia della controcultura giovanile dell’ultimo mezzo secolo. Metafora casuale del viaggio lungo le strade texane e messicane narrato nel ‘57 da Jack Kerouac, inno all’andare fine a se stesso, il film è in stand by dal ‘79, quando Francis Ford Coppola, che lo produce, acquistò i diritti fantasticando un lancio brillante nel clima favorevole della contestazione globale.
Ci è voluto un po’ di tempo ma i cameramen sono ai blocchi di partenza e nel giro di un anno dovrebbe essere in circolazione la trasposizione cinematografica del mitico romanzo, firmata da Walter Salles e José Rivera, il duo che ha adattato per il grande schermo “I diari della motocicletta”, peregrinazioni prerivoluzionarie del Ernesto Che Guevara.
Kerouac, scomparso a 47 anni anticipando la catarsi prematura delle icone del rock, compare anche nella seconda pellicola beat in gestazione. S’intitola “Howl” come l’omonima opera del ‘56 che in un sol colpo portò Allen Ginsberg agli altari della celebrità e in un austero tribunale chiamato a giudicarlo per oscenità. Dietro la telecamera c’è il regista Rob Epstein, davanti James Franco, l’attore di Palo Alto che, prima d’immedesimarsi nel più censurato dei poeti, morto nel ‘95, ha interpretato l’amante di Sean Penn in Milk.
Last but not least, ultima in ordine cronologico ma non d’importanza nella trilogia del revival beat, una produzione della casa indipendente Killer Film, la stessa della biografia di Bob Dylan “I’m Not There”, sulla vita di Lucien Carr, l’uomo che fece conoscere Kerouac, Ginsberg e William Burroughs prima di coinvolgerli, idealmente, nell’omicidio dell’omosessuale David Kammerer.
La storia, risalente al ‘44, era stata raccontata a quattro mani l’anno successivo da Kerouac e Ginsberg nel volumetto “And the Hippos Were Boiled in Their Tanks” ma, prima che l’attore inglese Ben Whishaw cominciasse a vestire i panni di Carr, non aveva mai oltrepassato la pagina scritta. «Ci sono molti paralleli tra gli Anni Cinquanta e il presente», dice all’Independent il professor Nicholas Lawrence, docente di cinema all’Università di Warwick.
I tempi sono maturi per una riscoperta in chiave pop della beat generation: «Come allora, stiamo tentando di uscire da una grave recessione e da più parti, soprattutto in America, si levano minacce alla libertà d’espressione. Ignoriamo ancora che tipo di reazione provocherà la crisi attuale ma conosciamo la risposta che mezzo secolo fa diede la controcultura».
Non è mai troppo tardi per imparare dal passato. In particolar modo dall’epoca precendente al boom che, sostiene Nick James, direttore della rivista del British Film Institute Sight and Sound, è una vera miniera d’oro: «Abbiamo cominciato con Elvis e il rock’n’roll e pian piano siamo arrivati a riportare in luce il lato più tosto degli Anni Cinquanta».