Ho visto nascere il lavoro che è divertente e mi commuove. Mi piace Luxuria, sa parlare delle minoranze
«Non mi sento un´eroina, solo una che ha avuto una vita intensa, speciale». Speciale sì, perché Romina Cecconi, per tutti “la Romanina”, all´anagrafe era nata Romano, per di più in un minuscolo paesino della Garfagnana in piena guerra mondiale, nel 1941. E Romano restò, almeno agli occhi della legge, fino al 1972 quando, tra le prime in Italia a diventare donna, riuscì a far sparire dalla carta d´identità quel nome che odiava. Una storia che fece scandalo e segnò la strada dei diritti dei transessuali, e che ora è diventata uno spettacolo teatrale – Romanina. Perché sono diventata donna, da stasera al Teatro della Cooperativa – interpretato da Anna Meacci e con la drammaturgia che Luca Scarlini ha tratto da Io, la Romanina, l´autobiografia che la Cecconi scrisse di suo pugno più di trent´anni fa.
Signora Romina, che impressione le ha fatto rivedere la sua vita sulla scena?
«Bellissima, questo è uno spettacolo che ho visto nascere e svilupparsi, ho anche dato delle dritte durante le prove. Anna Meacci in scena fa tutto, la cantastorie, il giudice, il poliziotto della buoncostume, poi una pelliccia cala dall´alto e si immedesima in me…».
Si è commossa?
«Di me tengo a sottolineare l´ironia. Mi sono commossa, ma anche divertita. Soprattutto quando si racconta del collegio, perché io sono cresciuta in orfanotrofio dai preti, la mamma era vedova con tre figli e non ce la faceva. Ero piccola e già mi sentivo Eleonora Rossi Drago. Ma in collegio ci si riconosce subito quando si è della stessa parrocchia, c´erano anche la Lollobrigida, la Pampanini… I primi approcci col sesso li ho avuti lì».
Si sentiva già donna?
«Eccome, quando mi rispedirono da mamma, lei mi sorprendeva con i suoi tacchi e le sue sottane. Andai via di casa, a Firenze, ma non avevo un soldo, perdevo tutti i posti di lavoro perché ero troppo scoperta. Volevo fare l´artista, mi unii a un circo dove ballavo il Bolero tutta succinta e mi travestivo da Brigitte Bardot. Giravamo la provincia, amoreggiavo qua e là nei bar. Così le mogli protestarono, e il prete in chiesa disse che ero il diavolo».
E poi?
«Al circo non ci veniva più nessuno, il padrone mi licenziò. Mi ritrovai sulla strada, per pagare le multe della buoncostume. Perché allora non ci si poteva travestire, il codice Rocco lo vietava. Mi diedero il coprifuoco, non potevo uscire dalle 9 alle 7 di mattina. Non lo osservai, e mi mandarono al confino in un paesino in Puglia. Ma prima scappai a Losanna, e mi feci operare. Fu mamma a portarmi i soldi che mi mancavano, 500mila lire: i risparmi sudati facendo la donna di servizio e la lavapiatti».
Finché, nel 1972, riuscì ad avere la carta d´identità come donna. Poi scrisse il libro. Si sente un´eroina civile?
«No, però so di essere stata artefice dei diritti dei transessuali, una femminista sui generis. Per avere il documento dovetti far causa allo Stato civile, e il libro lo scrissi per sostenere una battaglia che negli anni ´80 ha portato alla legge 164, che riconosce il cambiamento di sesso. Oggi rifarei tutto, anche se a chi vuol farlo dico: “ricordati che non si torna indietro”».
Che ne pensa di Vladimir Luxuria?
«È mia amica, una che sa parlare dei diritti delle minoranze. Fa bene a sfruttare fino in fondo la popolarità che le ha dato la tv, la capisco. Però mi spiace che non se la sia sentita di candidarsi alle Europee».