ORIZZONTI
Presentato anche «Cry me a river» di Zhang-Ke
VENEZIA
Sul quotidiano della Mostra – curato dal mensile Ciak – c’era ieri una divertente vignetta a firma di Stefano Disegni in cui si ricordavano «questi fantasmi» non compresi nella retrospettiva (col titolo omonimo) ma assai presenti nei primi giorni al Lido. Cose tipo Gianluigi Rondi – neo presidente del festival di Roma – la crisi degli investimenti (undici dei film in gara non hanno ancora una distribuzione italiana) e i festival, Toronto in testa, col quale il confronto è divenuto inevitabile ma ci sembra che stavolta (sarà forse l’inedito richiesto dalla manifestazione canadese che ha dirottato alcuni film lì) il gioco sia particolarmente «duro». È vero che la Mostra rispetto ad altre edizioni ha un aspetto forse più «austero» (?), manca la Mezzanotte, cosa che fa non poco la differenza, andrebbero senz’altro rivisti alcuni criteri di palinsesto questi sì eccessivamente «italici», ovvero rispecchianti l’asfittico orizzonte nostrano ove i film arrivano – non vale per tutti i distributori ovviamente – se si pensa che «funzionano» solo per garanzie di nomi noti ,star etc. E dentro a una visione culturale simile non c’è da stupirsi che ormai si va avanti a colpi di «red carpet». Perché allora disseminare in Orizzonti – le cose viste finora non entusiasmanti – geniali registi internazionalmente noti come Avi Mograbi (in Italia il film precedente a questo, Per uno solo dei miei occhi lo ha comperato Fandango congelandolo anni) o Ross McElwee?
In Orizzonti troviamo un piccolo regalo di Jia Zhang-Ke, Heshang De Aiqing(Cry Me a River), regista amico della Mostra il cui magnifico Still life – tanto per dire – ha fatto faticare Lucky Red che lo ha acquistato e distribuito in Italia, non incassando nonostante il Leone d’oro e nonostante Jia Zhang Ke sia un regista affermato nel mondo. Ma la cultura profonda di un paese non è roba che si improvvisa, Berlusconi infatti ci ha messo più di vent’anni a rifare l’Italia e continua senza che ormai nessuno si stupisca per nulla.
Cry Me a River è una giornata tra vecchi compagni di studi che si ritrovano al compleanno del professore. Erano i suoi favoriti, gli allievi più dotati e amati che hanno seguito i suoi corsi all’inizio degli anni novanta, ragazzi ai tempi di Tienanmen, come il regista che è nato nel 71. Quel momento di esplosione lo hanno vissuto intensamente, poeti, scrittori, curatori di una rivista, Generazione, finita dopo il primo numero, uno dei tanti spazi di pensiero e invenzione che attraversarono allora la Cina sedimentando comunque un cambiamento. Oggi sono manager, hanno lasciato la giovinezza alle spalle finendo in una vita agiata, matrimoni poco felici, i fantasmi dei loro reciproci amori perduti nel tempo. C’è qualcosa di malinconico e vero che commuove in questo film breve, compiuto nella sua semplicità diretta, di consapevolezza senza nostalgia.
Nello stesso programma è passato il «film sorpresa» molto atteso visto il soggetto, transessuali in Iran, condizione che si immagina particolarmente terribile pensando a come viene rappresentato il paese sui media occidentali. Invece, sorpresa, l’operazione per chi vuole affrontarla non è osteggiata affatto dalla religione sciita, assai più aperta – maschile e femminile sono i due aspetti dell’umano – sull’argomento del cattolicesimo alla Ratzinger e simili. Il problema è la società, le famiglie, i datori di lavoro, gli altri. Che non capiscono come sia possibile che un uomo con figli adulti, camionista, decida a un certo punto di diventare donna. O che l’amato figlio torni a casa con una busta piena di cosmetici (non deve essere ancora così diffuso in Iran il business della cosmesi maschile…), si trucchi, e voglia sedere in autobus nella parte riservata alle donne. Avevamo già visto un documentario su questo, pochi mesi fa a Berlino, Be like others di una ragazza, Tanaz Eshiaghian, più appuntito e centrato sulle questioni moralità/religione/ipocrisie sociali/relazione tra maschile e femminile di questo Il tedio (Khastegi). Dove le storie di sette transessuali a Tehran vengono disposte in modo un po’ casuale, quasi un catalogo di situazioni senza un particolare centro narrativo che non sia, appunto, la sessualità.
Sogan è un ragazzo esile, si sente a disagio negli abiti maschili e vuole sempre portare il velo. Il padre lo picchia, lo caccia di casa, lui ha un fidanzato che gli vuole bene, amici transessuali coi quali va a abitare anche se non accetta la prostituzione come unico modo per vivere. Tra loro c’è Sissi che però, a differenza di Sogan, disposta a vendersi un rene per trovare i soldi, non vuole farsi operare: essere donna in Iran vuol dire perdere tutti i diritti. È la questione fondamentale, che in Be like Others veniva messa fuoco con precisione. Ovvero: la religione accetta le operazioni perché ristabiliscono un equilibrio del sistema senza rompere il rapporto uomo/donna come le regole vogliono. Le difficoltà allora non sono soltanto quelle che affrontano i ragazzi, Shiva che vuole essere maschio forse più di tutti visto che non ha la stessa libertà di movimento, o Noshin, che la madre fa arrestare perché non accetta che il figlio sia ora una ragazza truccata. Aggressiva e sgraziata Shiva non si trucca e ha il suo decalogo con cui difendersi dalla curiosità altrui. Noshin invece è curatissima, si chiamava Mehdad, ma come scrive col rossetto alla mamma ostinata, ormai Mehdad è morto.
Diciamolo chiaramente però: in nessuna parte al mondo è facile, a cominciare dall’Italia, né dichiarare l’omosessualità come ci ha mostrato lo squallore politico divampato intorno ai Dico, né tantomeno una scelta transgender, qualcosa di ancora più sfuggente, una specie di molteplicità inafferrabile che spaventa , non si accorda alle donne e anche nella cultura gay ha provocato giudizi contraddittori.
Bahman Motamedian, regista del Tedio, si affida invece interamente al soggetto valutandolo forte in sé abbastanza da reggere il film senza indagare quella che è anche una fondamentale astuzia sciita, ovvero l’uso della tolleranza come strumento di normalizzazione. La formula è fiction/documento, con interviste ai protagonisti realizzate oggi, e il racconto visivo delle loro sofferenze battaglie nel passato. Non c’è però una relazione tra loro e quella che è la società in Iran, o quando ciò accade rimane a un livello poco sviluppato. La libertà di operarsi, e l’approvazione religiosa, non scalfiscono le resistenze e i tabù che però riguardano, a livello di controllo sociale, tutti quanti, maschi e femmine, costretti a regole assurde e umilianti. Fino al paradosso che se un transessuale ha diritto a documenti che provano il suo stato di «transito», e lo tutelano, una donna trovata senza velo o vista su un motorino perde il lavoro e finisce in prigione.
In qualche modo, oltre la battaglia personale, la scelta di questi ragazzi è forte visto che comunque la libertà del corpo e del piacere, di una vita in cui essere «come tutti», finisce per fargli accettare una condizione ancora più complicata. Il Tedio è quindi doloroso fino a diventare rabbia. Pieno di spunti il film però non riesce a renderne la potenza.