“Non credo nelle coincidenze” dice Lila, l’affascinante proprietaria del ristorante del mio film, interpretata da una raggiante Jaqueline Bisset. “Di questi tempi, credo nei miracoli”
Avevo in mente queste parole mentre mi trovavo in cima alla collina di Cumonah Hill, qualcosa di molto simile ad una Mecca per i Mormoni.
Una gigantesca statua dell’Angelo Moroni mi guardava dall’alto verso il basso.
Il mio film LATTER DAYS, che racconta la storia di un missionario mormone gay, era appena stato proiettato al festival di Rochester, ed ero molto sorpreso di trovarmi proprio nelle vicinanze di Palmyra, New York, il luogo che ha visto nascere il culto dei mormoni. Mi colpì ancora di più per il fatto che mi trovavo di fronte ad un’icona, una figura epica della religione della mia infanzia e prima giovinezza.
Mi ricordò come in qualche modo mi fossi sentito “ingannato” da bambino.
La altre religioni contemplavano figure di angeli, di serafini con morbidi capelli biondi ed ali aggraziate. Le immagini sacre della religione dei mormoni, invece, erano angeli rigorosamente privi di ali, severi, esclusivamente maschi, con vestiti informi, barbe meticolosamente curate e capigliature in stile anni 70.
Ai miei occhi, figure del genere parevano avere molto poco degli angeli, somigliando molto di più ai BeeGees nel film tratto da Sgt. Pepper. E forse questo è stato il primo indizio del fatto che ci sarebbe potuta essere una discrepanza tra me e la religione della mia infanzia: il cinema.
In effetti da bambino mi sentivo molto più incline ad una versione Hollywoodiana della gloria celeste, con in “Il Paradiso può attendere”. Mi ricordo ancora con quanta insistenza fissavo la locandina del film, quelle bellissime ali attaccate alla schiena di Warren Beatty. Eh si, quello era probabilmente il secondo indizio. Ci sono quelli che crescono già “allo scoperto”. Essendo cresciuto in una terra di cowboy, sul confine con lo stato della Utah, in un luogo polveroso governato dai camioncini pick-up e dai rodeo, mi resi conto subito di essere molto diverso. Persino da bambino, avevo un innegabile e segreto bisogno. Sapevo che – nascosto in me – c’era l’animo di un regista, che aveva necessariamente bisogno di essere “svelato”.
Alcune persone possono “vivere” un’esperienza, incorporarla nelle loro vite e forse addirittura utilizzarla per rendere il mondo un luogo migliore.
Altre persone, invece, sono destinate a tenerla dentro fino ad esprimerla realizzando un film. Quella è decisamente la categoria cui appartengo. Originariamente, ho scritto questo film per me stesso e per un paio di amici come me. Mi rendo conto che questo non sia il miglior “target” demografico per un mezzo di comunicazione come quello cinematografico. Tuttavia sentivo un bisogno urgente di raccontare questa storia. Ad un certo punto, in una delle prima stesure della sceneggiatura, il personaggio di Aaron (il protagonista mormone) si siede su una panchina a riflettere, comparando (forse in modo un po’ naive) la vita alla confusa massa di puntini di una pagina di fumetto ingrandita. Aaron esprime la speranza che forse, “dalla prospettiva di Dio siamo tutti collegati, e questo sarebbe bello”. Mi sono sentito come se Aaron non stesse parlando solo a me, ma a chiunque si senta diverso e solo, o tenti di trovare delle risposte razionali alle infinite domande poste dal mistero dell’umanità e della vita.
E questa è une delle cose che più apprezzo del film. Idealmente il film apre una finestra in altre vite, in mondi diversi, in nuovi reami di esperienza. Spesso, osservando le differenze tra noi stessi ed i personaggi dei film, troviamo anche dei punti di contatto. Troviamo somiglianze, con i nostri sogni e le nostre angosce. Sì, in moltissimi casi mi capita di uscire dal cinema e pensare: “Ho buttato 8 dollari e due ore della mia vita per vedere questa cagata”. Ma poi ci sono anche quelle rare ma impagabili occasioni quando in cinema mi sembra un tempio: le luci si spengono, lo schermo prende vita, e sullo schermo gli angeli ritrovano le ali.
C. Jay Cox – scrittore / regista.