Film da libro, per cominciare: il 61° Festival s’inaugura con Blindness di Fernando Meirelles, tratto da Cecità di Josè Saramago (Einaudi). Una repentina epidemia di cecità colpisce la popolazione che perde la vista riuscendo a scorgere appena una coltre bianca, una parete lattea. I malati vengono chiusi in un manicomio abbandonato: ma aumentano ogni giorno, mancano cibo e spazio, la violenza si sfrena, la metafora si fa sempre più trasparente.
Molti altri film in concorso a questo Festival condensano un’angoscia simile, compresi i due italiani, Gomorra e Il divo, di Matteo Garrone e di Paolo Sorrentino, sulla camorra e sul declino della politica. Non capitava da molto tempo che ci fossero in gara per la Palma due nostri film: una delle ultime volte dev’essere stata nel 1972, quando La classe operaia va in paradiso di Elio Petri e Il caso Mattei di Francesco Rosi vinsero ex-aequo la Palma, mentre più tardi la Palma toccò a Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani nel ‘77 e a L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi nel ‘78. Non è il caso di preoccuparsi per l’immagine italiana: se si dovesse badare a cose simili, Stati Uniti e Inghilterra non avrebbero più alcuna immagine da un bel pezzo. Non è neppure il caso di prendere la presenza di quei due film in concorso come una vittoria italiana, oppure come un segno di bella e fiorente produzione, oppure come un complotto antitaliano: simboleggiano nulla, semplicemente ci sono. Si può rallegrarsi perché sono molto belli, ma non rappresentano una tendenza né altro, soltanto la realtà che rispecchiano e i bravi autori che li hanno realizzati.
Quest’anno al Festival? Meno film, meno feste, meno giornalisti, meno fan: logico, pure il Festival avverte la crisi economica occidentale. Cannes riesce tuttavia a tenere alto il proprio prestigio: i nomi (le opere, si vedrà) dei partecipanti al concorso sono importanti e brillanti; non è male l’idea di celebrare i vecchi vincitori della Palma d’Oro e di risarcire gli autori dei film che non vennero proiettati nel dimezzato 1968; la Quindicina dei registi che festeggia quest’anno il quarantesimo compleanno è davvero una manifestazione parallela, offre un programma che il suo direttore Olivier Père definisce «radicale». Geograficamente parlando, il Festival è soprattutto sudamericano e belga più che americano o italiano.
Insieme con il prestigio va l’immagine del festival di Cannes, sempre splendente e radiosa anche col maltempo, fatta di cartelloni colorati, scollature, film, fiori, luci, odore di patate fritte e cerimonie, che neppure la implacabile (e benvenuta, almeno tutto funziona) routine riesce ad appannare.
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