La notizia della morte di Anthony Minghella, a soli 54 anni, è giunta come un fulmine a ciel sereno. Fiorello l’ha saputo praticamente in diretta, durante Viva Radiodue, ed è rimasto senza parole: Minghella gli aveva regalato, nel Talento di Mr.Ripley, l’unico ruolo cinematografico significativo della sua multiforme carriera. Era, quello, il film che legava Minghella all’Italia, sua patria d’origine: era nato sull’isola di Wight, territorio britannico, il 6 gennaio 1954 da genitori famosi nella comunità per la loro fabbrica di gelati. È morto in ospedale, a Londra, per un’emorragia seguita ad un intervento per rimuovere un tumore alle tonsille: l’operazione, avvenuta la settimana scorsa, era andata bene, ma le complicazioni hanno ucciso un artista nel pieno della maturità.
Anthony Minghella mancherà a molti, sicuramente a tutti coloro che hanno lavorato con lui. Fiorello l’ha sempre descritto come un uomo gioviale e simpatico: a Capri, nel ’99, si erano ritrovati a cantare insieme in un locale; poco tempo dopo il regista si era ricordato di quel «ragazzo strano e bello», parole sue, per una piccola parte nel Talento di Mr.Ripley, girato fra Roma e Ischia. Minghella era in quel momento uno dei registi più «caldi» di Hollywood: tre anni prima, nel ’96, aveva vinto con Il paziente inglese ben 9 Oscar, compresi miglior film e miglior regia. Minghella ha portato alla candidatura all’Oscar ben 5 attori (Ralph Fiennes, Renée Zellweger, Juliette Binoche, Jude Law e Kristin Scott-Thomas) e ha sempre confezionato successi che piacevano all’Academy e al grande pubblico. Il suo film d’esordio fu Il fantasma innamorato, del ’90, seguito dal Paziente inglese – tratto da un romanzo di Michael Ondaatje -, Il talento di Mr.Ripley, Ritorno a Cold Mountain e Complicità e sospetti. Dal punto di vista commerciale Minghella aveva probabilmente già dato il meglio di sé con Il paziente inglese, ma dal punto di vista artistico un regista, a 54 anni, avrebbe ancora il diritto di cambiare, di percorrere nuove strade. Non potrà farlo, stroncato da una fatalità assurda.
Anthony Minghella, come molti cineasti britannici, arrivò al cinema dal teatro e dalla televisione. Fino a 30-35 anni si considerava un drammaturgo/sceneggiatore: aveva scritto decine di copioni per la Bbc e un suo dramma, Made in Bangkok, aveva vinto il prestigioso London Theatre Critics Award. Eppure i suoi film, almeno i più famosi, non sembrano film di uno scrittore: sono basati su romanzi famosi (del citato Ondaatje, di Patricia Highsmith, di Charles Frazier) ma hanno un respiro epico e una magnificenza visiva che va al di là della pagina scritta. Se c’è un precedente, nel cinema britannico, al quale sicuramente Minghella aspirava è quello di David Lean, il sommo regista di Lawrence d’Arabia e del Ponte sul fiume Kwai: di tanto in tanto il cinema inglese, quasi sempre legato ai generi o attento alla realtà sociale della Gran Bretagna, partorisce questi registi i cui sogni sono grandi quanto il mondo. Verrebbe voglia di definirli «imperiali», il che valeva sicuramente per Lean e per gli «Arcieri» Powell & Pressburgher.
Minghella arriva al cinema in un periodo in cui l’epica sembra addormentata, ma fa del suo meglio per risvegliarla. Nessuno dei suoi kolossal era un capolavoro, e ad esser crudeli dovremmo definirlo un epigono, più che un erede, di Lean; ma certo è uno dei pochi registi che nel corso degli anni ’90 hanno «costretto» gli spettatori ad andare al cinema per godersi l’ampiezza e la magniloquenza del suo lavoro. Ci lascia in regalo un ultimo film appena completato: The No.1 Ladies Detective Agency, sulla prima donna-detective del Botswana: un soggetto quanto meno insolito, che guarderemo con affetto e commozione.
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