Dalla rassegna stampa Cinema

Ferzan Ozpetek

Registi poeti …confessa “Non esiste mai un motivo preciso per cui ti innamori. Io entro nel mistero e poi cerco di rimanerci il più a lungo possibile”…

L´INCONTRO

La sua Turchia gli ha dato l´amore per il cinema e il suo nome, un omaggio alla luce che, dice, serve per tenere gli occhi aperti fino all´ultimo istante. Ma è Roma che lo ha convinto a fermarsi e che ha ispirato i suoi film, compreso quello che sta iniziando a girare in questi giorni “La stessa cosa succede nell´amore” confessa “Non esiste mai un motivo preciso per cui ti innamori. Io entro nel mistero e poi cerco di rimanerci il più a lungo possibile”
Ho una mia idea di famiglia allargata, delle grandi tavolate attorno alla pasta Le parole passano da una testa all´altra Le idee dei miei film sono venute così…

ROMA
Questa è la storia di un luogo e dell´uomo che lo ha trasformato in un film. C´è una casa gialla sull´Ostiense. C´è un portone stretto tra un negozio di letti e materassi e un paio di vetrine dalle quali si sporgono minacciosi nel loro design ordinario cucine componibili e arredi per il bagno. Ci sono sul muro le tag di due graffitari, Mob e 50C, che devono essere passati di qui in una notte stanca d´ingegno e fantasia, per lasciare un segno appena accennato, la nostalgia di una ribellione. Ci sono lungo il marciapiede panchine di legno che assomigliano alle bocche di certi vecchi. Sono sdentate e annerite. Sedersi su di esse è quasi impossibile, bisognerebbe possedere ginocchia e caviglie da equilibrista e non aver paura di bucare i pantaloni e le donne di smagliare le calze di seta, eppure quelle panchine devono essere da così tanto tempo piantate nel cemento che nessuno osa sostituire ciò che ormai è solo un loro simulacro.
Ferzan Ozpetek scende dallo scooter, si toglie il casco e alza la testa fino alla cima del palazzo. Prima del cielo s´intuisce un grande terrazzo dal quale fanno capolino il verde delle piante, il rosso e il giallo di qualche fiore. «Guardare non basta», dice. «È vedere quello che conta». Abita qui da trent´anni, da quando ne aveva diciotto. Mi spiega ciò che i suoi occhi vedono. Qui lavora, ama, fa da mangiare. Questa casa, dove arrivano il profumo e, nella pioggia, le gocce salate del mare, per lui è come il Bronx di Robert De Niro, l´Irlanda di Ken Loach, la nebbia di Ermanno Olmi. Si è mosso da un piano all´altro, ha affittato, ha comprato, ha girato Le fate ignoranti e Saturno contro. Questa casa gialla in un vecchio quartiere popolare di Roma rappresenta la sua vita, la sua cuccia e il suo set. «È il primo posto che mi ha trasmesso un senso di stabilità. Quando l´ho capito mi sono fermato. Semplice, no? Poteva essere un´altra città, un altro Paese. Invece è stata l´Italia, è stata Roma. Se mi chiedi il perché non ti so rispondere. Non ho neppure voglia di pensarci. Credo che non ci si debba mai domandare quali sono i motivi che ci spingono a fare determinate scelte. Magari ti metti in testa un´idea e dopo qualche tempo ti accorgi che era sbagliata. Cerco di stare al riparo dalle delusioni. Preferisco credere che nel nostro viaggio ci guidi sempre il destino o un miraggio, qualcosa di soprannaturale, di imperscrutabile. La stessa cosa succede nell´amore. Non è vero? Non esiste mai un motivo preciso per cui ti innamori. Io mi lascio andare, cerco qualcosa nella persona che ho scelto o dalla quale sono stato scelto. Ma non so mai bene che cosa troverò. Entro nel mistero e cerco di rimanerci il più a lungo possibile».
Ora siamo nel suo alloggio, ci sediamo su un divano nero. Nella stanza accanto c´è una signora di colore che stira. Ha una faccia solare e gioiosa. Sorride. Il figlio, bellissimo, dimostra sei o sette anni. Tende la mano e si presenta. Scherza con Ferzan, si scambiano promesse di giochi futuri. Ozpetek mi dice che ama molto la poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996. Prende da uno scaffale della libreria una sua raccolta di poesie per spiegare la sua parabola, l´istinto di un uomo che fugge senza andare mai in nessun posto: «È capitato di sedermi sotto un albero, sulla riva del fiume in una mattina di sole. È un evento futile che non entrerà nella storia». E ancora: «Ad una simile vista m´abbandona ogni volta la certezza che quel che è importante lo sia più di ciò che non lo è affatto». Come dire: tutto conta, nulla conta.
Sono quasi le sei del pomeriggio, Ozpetek va in cucina, rientra dopo qualche minuto e mette sul tavolino due tazze di caffè. «In Turchia è inutile che l´ospite dica no grazie, il caffè lo deve bere comunque, altrimenti il padrone di casa si offende. A volte mi mancano gli odori di Istanbul, sento il desiderio di tornare nella mia terra». Ride. «E allora torno qui, sull´Ostiense. Mi acquieto come un gatto al sole, sul davanzale della sua finestra preferita».
Il suo cinema è cominciato in Turchia. Era un bambino. «All´inizio entravo nelle sale gratis. Ricordo che tutto quello che facevo da piccolo era andare al cinema. Null´altro. Erano quasi sempre film in lingua originale, sottotitolati. Ho visto, tra gli altri, Alfredo, Alfredo, Il dottor Zivago, My fair lady. Mi smarrivo in un altro mondo, come l´Alice di Lewis Carroll. Per sognare, ridere e piangere. Forse la cosa che mi piaceva di più era condividere il dolore delle storie che passavano sullo schermo».
Il Ferzan regista nasce invece a Roma un pomeriggio di novembre. «Facevo il volontario in una produzione di Valerio De Paolis. Giravamo in un teatro. Io andavo e venivo dal bar. Portavo da bere e da mangiare al regista e agli attori. Dentro era interno giorno. A un certo punto si sono spalancate le porte del teatro. Siamo stati invasi dalla notte. Il buio fuori. Sono rimasto scioccato. Tornando a casa sulla macchina di un amico che era l´elettricista della troupe mi sono sentito colmare il cuore da una grande tristezza. Quello era il mio cinema. Non ti so spiegare di più». Nell´ambiente dicono che è bravissimo, ma vanitoso, che si ama molto, che gli piace essere accarezzato dalla critica con la stessa dolcezza istrionica che attraversa i suoi film. Lui non smentisce, infila un sorriso furbo. Avrebbe voluto vivere dopo Marco Aurelio o prima della nascita di Cristo, quando l´uomo si trovò solo con la natura. «Amo gli uomini in maniera molto forte. Mi piace il cattivo perché lo trovo tenero. Nell´uomo il male non esiste, tutto dipende dalle situazioni in cui si viene a trovare».
Ozpetek sembra spezzato in due. Pare vivere oscillando tra poli opposti. «Dei film che ho realizzato sono assolutamente soddisfatto e nello stesso tempo assolutamente scontento. Non dirò mai: cazzo, che bel film che ho fatto. Anzi, in sala, al termine del montaggio, mi capita spesso di abbassare gli occhi per non rivedere una scena sbagliata, un errore, una imperfezione. Forse, tra tutti i miei lavori, La finestra di fronte è quello che più si avvicina al mio cinema ideale. L´interpretazione di Massimo Girotti mi commuove ogni volta che lo rivedo. Quanto mi mancano i suoi modi sofisticati e pudichi, la sua ironia, la sua intelligenza. Trovo che sia soprattutto importante tutto quello che sta attorno e dentro la lavorazione di un film. Mi piace la confusione che si viene a creare, la paura e l´incertezza. Mi piace guidare gli attori. Li devo desiderare. Come artisti, voglio dire. Li voglio scegliere, li voglio costruire. Sono io il regista e finché stanno con me sono un po´ il loro padrone. Lo faccio per il loro bene». Nella memoria ha tre maestri. Il Dino Risi del Segno di Venere, il Vittorio Caprioli di Parigi o cara e il Vittorio De Sica di Matrimonio all´italiana.
Tra qualche giorno tornerà sul set, ancora a Roma, per il suo prossimo film, tratto dal libro Un giorno perfetto di Melania Mazzucco. Produzione Fandango. Per la prima volta una storia drammatica, di sangue, gelosia, rancore. Non un soggetto da Ozpetek. Diventerà una sfida con se stesso. I protagonisti saranno Isabella Ferrari e Valerio Mastandrea. Ozpetek li ha tenuti sull´orlo dell´abisso per settimane prima di convincersi che erano quelli che voleva. È stato incerto, è stato in ansia. Ora è contento. Ha mandato Mastandrea in palestra a mettere su muscoli. Ogni sera Valerio gli spedisce un sms aggiornandolo sui progressi della bilancia e dei pettorali. Ferzan lo vuole più grosso e più vecchio. Ha chiesto alla Ferrari di sporcare la sua eleganza e di ingrassare. La vuole più rotonda e procace, una sorta di Anna Magnani del nostro tempo. Le raccomanda: «Mangia, mangia, devi riempire quelle guance». Dice, come scrisse Michelangelo Antonioni, che gli attori non hanno bisogno di essere intelligenti quando sono davanti a una macchina da presa. «Sono creature di un´altra terra, non bisogna cercare di capirli. Gli attori si muovono seguendo un sesto senso. Più dell´intelligenza conta il loro lato animale. Io li amo. Oppure li odio».
Oscilla. Da un estremo all´altro. Anche adesso che ha preso confidenza e ha più voglia di raccontarsi. Da sei anni vive con Simone. È il suo compagno. «Ogni mattina ringrazio Dio perché ritrovo Simone vicino a me. Vorrei che fosse così fino alla fine dei miei giorni, anche se so che nulla è per sempre». Sa che la nostra missione è non durare molto e che accettare questa verità è forse il solo modo per conservare il fascino delle situazioni e evitare le tragedie. La sua casa è sempre piena di amici, lui cucina per tutti, prende applausi e distribuisce ricette che sono un po´ come la formula della Coca Cola, nessun altro riesce a restituire l´originale. «Ho l´idea della famiglia allargata, delle grandi tavolate attorno a una pastasciutta. Parole che si inseguono, si confondono, passano da una testa all´altra. Le idee dei miei film sono venute così, devo ringraziare molte persone. Pensa che ne ho una nuova e segreta, suggeritami da un dialogo che ho ascoltato per caso su un autobus».
Se guarda all´Italia torna a quel teatro di molti anni fa, al buio fuori. «Ci troviamo dentro una notte profonda. Intolleranza, razzismo, incapacità di fare politica per il cittadino. L´Italia di trent´anni or sono era migliore dell´attuale. Era più coraggiosa. Oggi le leggi sul divorzio e sull´aborto, approvate quando governava la Democrazia cristiana, non passerebbero più. Persino la Chiesa si stupisce della pavidità della politica, i partiti hanno un atteggiamento quasi servizievole nei confronti delle gerarchie vaticane. La Chiesa deve avere un ruolo, non un potere capace di condizionare le scelte di un Paese libero. Posso capire i preti. Fanno il loro mestiere. I politici, invece, dimostrano di conoscere pochissimo l´uomo e ancora meno i loro elettori. Penso ai Dico, per esempio. Che cosa c´è di più cristiano della protezione dei deboli? Invece si buttano a mare i sentimenti migliori per il timore di perdere un pugno di voti. Ecco perché ho la sensazione che stiamo vivendo in un tempo che mi ricorda molto il periodo che precedette la Rivoluzione francese». Non ci saranno rivolte, solo qualche graffio sui muri come quelli del graffitari pentiti. Per provare a addolcirsi la delusione Ozpetek è entrato nella lista di Veltroni. Il nuovo Partito democratico. «Ci ho riflettuto a lungo. Alla fine ho detto sì. Mi auguro che il Pd si riveli coerente all´idea che lo ispira. Dici che posso sperarlo?». Difficile rispondere.
Ferzan in Turchia è il nome che si dà alla prima e all´ultima luce del giorno. La luce è fondamentale per Ozpetek. Dice che ha imparato molto dalle Memorie di Adriano della Yourcenar e che ha sempre nella mente il finale del libro. Lo può recitare a memoria: «Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più. Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti». «Ecco, io voglio vivere con gli occhi aperti, provare tutto fermandomi sempre un attimo prima di perdermi. Di recente ho scoperto il vino rosso, una passione per le cantine. Bevo. Inseguo quell´annebbiamento nel quale trovo il lampo della magia, mai la palude. Non potrei sopportare di perdere il controllo. Questo, per me, significa tenere gli occhi aperti». Gli domando su che cosa, soprattutto. E in quale direzione guardano. «Il cinema, l´amore, il sesso, il buon cibo». Basta così.

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