Dalla rassegna stampa Cinema

CANNES 2007 Palma romena

«4 mesi, 3 settimane e 2 giorni» si aggiudica il massimo trofeo. Il regista Mungiu: non c’è bisogno di un grande budget per fare un buona pellicola – «Tante discussioni, unanimi solo su Gus Van Sant»

Trionfa il film sull’aborto ai tempi di Ceausescu. «Fatto in sei mesi» Premiati anche Schnabel e il cartoon che attacca il regime iraniano
Delon chiede applausi per ricordare Romy Schneider. Fischi in sala quando un attore cita Sarkozy

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
CANNES — Viva le donne, i vecchi, i malati, i puri di cuore e la natura.
Il Festival di Cannes festeggia i suoi 60 anni schierato dalla parte più fragile e meno luccicante del mondo. Palma d’oro alla Romania, Paese povero di mezzi e ricco di idee. Vince 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni di Cristian Mungiu, cronaca spietata di un aborto clandestino nella Romania di Ceausescu. «Per me è una favola, fino a sei mesi fa non c’erano neanche i soldi per poterlo girare. Poi l’invito a Cannes, e ora…», esclama commosso il 39enne regista, al suo terzo film. «Questo premio — aggiunge — è una buona notizia per le piccole cinematografie. Non c’è bisogno di un grande budget e di grandi star per fare un buon film».
Una conferma della sorprendente vitalità del cinema romeno, già decorato l’altro giorno al Certain Régard per California Dreaming
di Cristian Nemescu, scomparso l’anno scorso a 27 anni.
E poi, tante donne alla ribalta. Alla giapponese Naomi Kawase il prestigioso Gran Premio per Mogari no mori. Graziosa, 38 anni, dieci anni fa qui aveva vinto la Camera d’Oro. Ora, con una storia di un vecchio e una ragazza spersi dentro una foresta rigeneratrice, guadagna il premio più ambito dopo la Palma, quello che, come ha ricordato Carol Bouquet consegnandolo, «aveva fatto fare salti di gioia a Roberto Benigni, stramazzato ai piedi di Scorsese, allora presidente della giuria». Emozionata al limite della lacrima Kawase balbetta: «Fare un film è difficile come vivere. Bisogna superare tante difficoltà, bisogna soffrire. Ma a darti la forza per andare avanti non sono né il denaro né il lusso, ma quello che non si vede: il vento, la luce, il ricordo di chi ci ha preceduti».
Altra donna, l’israeliana Shira Geffer, vince, in coppia con il marito Etgar Keret, la Camera d’Oro per Meduzot. E ancora al femminile è il Premio della Giuria a Marjane Satrapi, celebre disegnatrice di «strip» graffianti sulla condizione delle donne nel mondo islamico, ora al suo debutto nella regia con il film d’animazione Persepolis. Felice, dedica il premio alle «novanta persone dell’équipe tecnica e a tutti gli iraniani». A dividere lo stesso riconoscimento, la giuria, capitanata dall’inglese Stephen Frears, ha laureato il messicano Carlos Reygadas, autore del panteistico e miracolistico Stellet Licht. Un ex aequo che ha allargato la rosa dei premiati. Forse per accontentare un po’ tutti o forse, come ha detto Frears, «perché stavolta la qualità era davvero alta».
Il super favorito Julian Schnabel invece è risultato «solo» miglior regista, per Le Scaphandre et le Papillon storia di giornalista in coma, ridotto a comunicare muovendo una palpebra. Pittore e scultore americano, dieci anni fa passato al cinema con Basquiat,
Schnabel ringrazia tutti, stringe la mano a ogni giurato, ma si lascia sfuggire un piccato rimpianto: «Se avessi vinto la Palma, l’avrei dedicata a Bertolucci».
Sarà per un’altra volta. Un po’ disilluso pure Gus Van Sant condito via con un premio speciale inventato per il 60mo.
A condurre la serata la bionda Diane Kruger scollata in seta blu, poco dopo anche sullo schermo del Lumière nel film di chiusura, L’age des Ténèbres del canadese Denys Arcand. Ad affiancarla nella consegna dei premi, due vecchie glorie del cinema: Jane Fonda e Alain Delon, splendidi settantenni, e un’intramontabile Charlotte Rampling.
A Delon si deve uno dei momenti più emozionanti della soirée: «Vi domando 25 secondi di applausi per ricordare una donna eccezionale e un’attrice immensa morta 25 anni fa: Romy Schneider». L’ovazione è andata oltre il tempo richiesto, il ricordo del lungo e tormentato legame tra i due, i più belli e affascinanti del cinema d’allora, fa parte dei miti del cinema. «Le donne e le attrici confondono i loro ruoli nella mia vita, senza di loro non sarei quello che sono ora» ha concluso Delon abbracciando una nuova stella, la coreana Jeon Do-yeon, miglior interprete per Secret Sunshine di Lee Chang-dong. L’attore più bravo, invece, è risultato il russo Kostantin Lavronenko per The Banishment di Andrej Zviaguintsev, Leone d’oro nel 2003 a Venezia per Il ritorno.
Una madre e una figlia, ciascuna in lotta per sopravvivere e per un mondo migliore, sono le protagoniste della miglior sceneggiatura, del turco- tedesco Fatih Akin in Auf der anderen Seite.
Akin ha voluto mandare un messaggio alla Turchia: «Bisogna restare uniti, altrimenti cadiamo».
E a proposito di messaggi, quello che ha più agitato la platea è venuto dall’irriverente Jamel Debouzz.
Nel consegnare il premio a Satrapi, il piccolo e barbuto attore francese d’origine nordafricana, già premiato qui per Indigenes,
ha annunciato: «Mi sono allineato a Sarkozy». Fischi in sala. Ma Jamel ribatte ironico: «Devo farlo, per salvare la pelle…». E conclude serio: «Ma per fortuna Cannes è nata dalla Resistenza. Viva la Repubblica, viva la Francia».

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PAOLO MEREGHETTI
IL VERDETTO

Dall’Europa all’Oriente riscossa del cinema «etico»

Scelte all’altezza di un festival di qualità, poche delusioni CANNES — Le previsioni si sono avverate a metà. Palma d’oro al regista romeno Cristian Mungiu e niente per i Coen, che alla vigilia si dividevano i pronostici. E dopo che anche il connazionale Cristian Nemescu si era aggiudicato sabato il premio della sezione Un certain régard (per California Dreamin’- Nesfarsit) bisogna dire che questo è proprio l’anno della Romania, un Paese che nel 2000 non era riuscito a produrre nemmeno un film! Evidentemente ne ha fatta di strada, anche se i problemi continuano a essere numerosi visto che Mungiu, ritirando il premio, ha ammesso che ancora sei mesi fa non aveva i soldi per produrre la sua sceneggiatura.
Il film, 4 luni, 3 saptamini si 2 zile ( 4mesi, 3 settimane e 2 giorni) racconta con una immediatezza sconvolgente la giornata di due studentesse: una deve abortire (quando il regime di Ceausescu aveva proibito la pratica per assicurare maggior mano d’opera al Partito) mentre l’altra si dà da fare per aiutarla. La forza del film è tutta in una regia che sembra non farsi distrarre da niente: segue alternativamente le due ragazze, mettendo in evidenza una ingenuità che rischia di diventare superficialità e immoralità.
E senza mai enfatizzare nessun elemento della storia ci racconta tutto di un Paese che ha perso ogni valore, dall’ottusa burocrazia dei portieri d’albergo all’agghiacciante avidità del medico abortista, dalla rassegnazione delle due ragazze al vuoto dei discorsi dei genitori. Così lo spettatore finisce per essere come ipnotizzato da quella macchina da presa che sa sempre dove fermarsi, dove guidare l’occhio, che cosa fare vedere.
Probabilmente la giuria è stata conquistata proprio da questa idea di cinema etico, rigoroso, controllatissimo e insieme «oggettivo», e non ha visto nella panoramica che dagli occhi dell’amica scende sul feto abortito di «4 mesi, 3 settimane e 2 giorni» quello che a chi scrive (e non solo) è sembrato un colpo basso un po’ a effetto, talmente improvviso e forte (la macchina si ferma qualche secondo sul feto) da rischiare di cancellare la lettura dello stordimento morale che ai tempi di Ceausescu si era impadronita dei romeni. Ma che la giuria avesse in testa una concezione della regia, e in definitiva del cinema, molto chiara e precisa, lo rivelano bene anche gli altri premi, dalla «sorpresa» Naomi Kawase (Gran Premio per Mogari no mori)
al premio del Sessantesimo dato a Gus Van Sant, a quello per la regia che ha premiato Julian Schnabel, alla sceneggiatura per il turco Fatih Akin fino ai premi della giuria divisi tra Marjane Satrapi e Carlos Reygadas.
In tutti questi film si poteva leggere la voglia di interrogare il reale attraverso la forza del cinema, di usare i film — per diversi che fossero — come grimaldelli per scardinare lo schermo e aprire una finestra sul mondo. E non solo come lezioni di linguaggio cinefilo, tutto ripiegato su se stesso. Come sono sembrati, ad esempio, Les Chansons d’amour e Une veille maîtresse, i due film francesi «al 100 per cento» (perché Schnabel è pur sempre un americano e la Satrapi una iraniana, e queste origini si sentono, eccome), due titoli molto difesi dalla critica transalpina ma totalmente dimenticati dal palmares.
Una sicurezza di giudizio che risalta anche nei premi agli attori. Tutti si aspettavano un trionfo per Galina Visnevskaija, la protagonista del film di Sokurov, e invece il premio è andato alla coreana Jeon Do-yeon, forse meno carismatica ma sicuramente più attrice, più «professionista». Forse solo il laureato russo Konstantin Lavronenko può far pensare a un qualche gioco di scambi all’interno della giuria, vista la prova collettiva degli attori americani. Ma è vero che in un film troppo accademico ha dato mostra di una recitazione intensa e convincente.
Così alla fine, un palmares decisamente condivisibile suggella un’edizione di alto, se non di altissimo livello. Le promesse della vigilia sono state quasi tutte confermate. Le vere delusioni si limitano praticamente ai due soli film francesi di Honoré e della Breillat, perché anche se non abbiamo amato né Kusturica né Seidl e continuiamo a pensare che sia i Coen sia James Gray avrebbero potuto fare meglio (in passato lo hanno dimostrato agevolmente), è pur vero che i loro film rientrano agevolmente in quella categoria di «film di qualità media», ora un po’ più alta ora un po’ più bassa, che ogni festival è pronto a contendersi.

IL PRESIDENTE
Il regista inglese e presidente della giuria Stephen Frears: «Alla fine sul verdetto abbiamo trovato un accordo, dopo discussioni serie e costruttive»

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L’accusa

Tarantino: «Gli italiani? Deprimenti»

«I nuovi film italiani sono deprimenti e monotoni». Quentin Tarantino (foto) commenta così, in un’intervista pubblicata su Tv Sorrisi e Canzoni oggi in edicola, lo stato di salute del nostro cinema. Il 44enne regista di Pulp Fiction e Kill Bill, fino a ieri a Cannes dove ha presentato il suo Death Proof, film in cui tre avvenenti ragazze si imbattono in un pericoloso serial killer psicopatico e misogino, non concede sconti: «Le pellicole che ho visto negli ultimi tre anni sembrano tutte uguali. Non fanno che parlare di: ragazzo che cresce, ragazza che cresce, coppia in crisi, genitori, vacanze per minorati mentali. Che cosa è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli Anni 60 e 70 e alcuni film degli Anni 80, e ora sento che è tutto finito. Una vera tragedia».
L’unica assoluzione, peraltro parziale, è per Nanni Moretti.
«Moretti fa le sue cose, è uno che porta energia vitale e respiro al cinema. Ma l’Italia non è più quel che era. Potrei fare liste di nomi di registi che mi piacciono provenienti da molti Paesi, ma non dell’Italia».

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Giovanna Grassi
LA GIURIA

«Tante discussioni, unanimi solo su Gus Van Sant»

CANNES — Uno solo è stato il commento nella sala Debussy dove la stampa internazionale era riunita per la proiezione «live» della consegna dei riconoscimenti del 60esimo Festival di Cannes: «Hanno dato premi a quasi tutti, all’unico che volevano all’unanimità, Gus Van Sant per Paranoid Park, hanno dato quello speciale della terza età di Cannes quando è il film più giovane, forte, innovativo».
Che non siano state cinque riunioni facili lo ha confessato l’illuminato e schietto Michel Piccoli: «Certo che non eravamo d’accordo, certo che abbiamo molto discusso ed è stato un bene, all’ombra non di un presidente dittatore. Ognuno aveva i suoi preferiti. Io mi sono battuto per i miei e ho vinto e se sconfitte ci sono state per me il dialogo con i colleghi le ha stemperate.
Comunque, la parola unanimità è fuori posto sempre in una giuria perché ognuno maneggia il suo aratro. L’importante è trovare una armonia nel giudizio complessivo: c’è stata sulle pessime interpretazioni e sui film che non sono piaciuti affatto e che tocca a voi scoprire».
Stesso concetto espresso da Marco Bellocchio: «Non ci conoscevamo, perlopiù. Avevamo codici, gusti, idee, formazioni diverse. È stato necessario e utile trovare mediazioni».
Le donne pare siano state molto battagliere nel sostenere in particolare la pellicola rumena sul tema dell’aborto, ma anche l’Asia o l’Oriente. Frears, al solito in vena di scherzi, ha detto: «Le donne erano determinate, Maggie Cheung mi ha colpito. Non fatemi dire di più: il voto è segreto e, comunque, non ricordo come si è arrivati a stabilire questo o quel premio». E alle perplesse risate ha risposto: «È stato gradevole e utile parlare tra noi». Poi, però, messo alle strette sull’unanimità e sul perché della sorpresa del premio per i 60 anni del Festival qualcosa in più della Palma d’oro, ha dichiarato: «Abbiamo voluto, tutti noi, premiare l’insieme del lavoro di un grande regista come Van Sant, che ha portato un film forte, bello».
Il Nobel turco Orhan Pamuk si schiera con la Palma d’oro al film rumeno 4 month, 3 weeks & 2 days di Cristian Mungiu: «Non c’erano dubbi sulla sua sostanza. In quanto a questa esperienza, per me che non faccio parte del mondo del cinema, è stata molto bella e mi ha fatto tornare ragazzo quando, dopo la scuola, andavo a vedere un film dopo l’altro, provando il desiderio di scambiare opinioni con gli amici».
Da una giuria così forte ed eurocentrica ci si aspettava, in barba ai pronostici sbagliati dei giornali, un rifiuto del cinema americano di stereotipi sia pure d’autore, come il film dei fratelli Coen. Bisogna considerare che Julian Schnabel, americano, miglior regista per il toccante Le scaphandre et le papillon, firma un film di matrice letteraria e tutto francese; quanto a Gus Van Sant è profondamente americano, ma intriso di gusto europeo, e Paranoid Park è stato prodotto dalla Francia e da uno dei nomi più potenti d’Oltralpe, Marin Karmitz. Comunque siano andate le cose, Jane Fonda, saputo che il film vincitore affronta il problema dell’aborto, ha detto: «Fossi stata in giuria, l’avrei premiato a priori».

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