Dalla rassegna stampa Cinema

A Est e Ovest, ragazzi che tristezza!

CANNES Abbiamo messo assieme due film d’autore perché ci parlano di giovani semi annegati nella nostra civiltà di qua come di là dell’Oceano. Fino alle periferie ucraine. Senza tante speranze. Dal «Paranoid Park» di Gus Van Sant a «Import-Export» di Seidl.

Cosa si nasconde dietro la quotidianità dei gesti, dietro il sordido delle nostre città, dietro la solitudine degli esseri umani? Il cinema cerca da sempre di dare risposte a queste pesantissime domande. Raramente ci riesce. Ma quando ci riesce, acquista un senso. Ieri il concorso di Cannes si è mosso fra Europa e America, rintracciando la violenza nascosta dietro i nostri comportamenti di bipedi. Gus Van Sant, statunitense, e Ulrich Seidl, austriaco, sono due cineasti-etologi. Studiano l’uomo come gli etologi studiano gli animali. Ne osservano i movimenti, i rituali, i gesti che si ripetono, i rapporti di potere all’interno del branco. Non c’è nulla di sprezzante né di razzista in questo approccio. Anzi, è forse l’unico approccio serio all’uomo, libero da sentimenti e da ideologie, e soprattutto da quella «cosa ottocentesca» – la definizione è di un altro etologo prossimamente in concorso qui a Cannes, Emir Kusturica – che è la psicologia.
Gus Van Sant, con Paranoid Park, dà un seguito ideale a Elephant, il film che gli è valso nel 2003 la Palma d’oro. Tema: la violenza repressa degli adolescenti americani. Svolgimento: in Elephant (messinscena della strage di Columbine) tale violenza esplodeva in modo programmatico; in Paranoid Park arriva per caso, nel corso di una serata nemmeno tanto trasgressiva. Alex è un ragazzo appassionato di skateboard: lo pratica nella pista di Paranoid Park, costruita dagli stessi skaters sotto un ponte in quel di Portland, Oregon. Paranoid Park è un territorio franco: sappiamo, anche da documentari famosi come Lords of Dogtown, che gli skaters sono una sotto-cultura, come si definiscono tecnicamente i gruppi chiusi, con un loro gergo e una loro filosofia. Una sera, assieme a uno skater più grande, Alex fa una bravata: sale su un treno in corsa, così, solo per l’ebbrezza di farlo. Un guardiano della ferrovia tenta di farli scendere. Alex lo colpisce con lo skateboard. L’uomo cade, finisce sotto il treno, muore. Giorni dopo, un poliziotto arriva nella scuola di Alex per interrogare, come possibili testimoni, tutti i ragazzi che frequentano Paranoid Park. Alex si trova così, nella solitudine dei suoi 16 anni, a prendere una decisione troppo grande per lui: parlare o tacere?
Ulrich Seidl prosegue, con Import-Export, il discorso stilistico ed esistenziale impostato nel 2001 con lo stupefacente Canicola. Là, le grottesche storie di relitti umani della periferia viennese erano 4-5. Qui, fin dal titolo, le storie sono due (e non si incrociano mai). Olga è un’infermiera che dall’Ukraina emigra in Austria, dove trova lavoro come donna delle pulizie in una clinica per anziani invalidi; Paul è un’ex body-guard che, licenziato, si reca in Ukraina al seguito del patrigno, per installare videogame e distributori di chewing-gum. La cortina di ferro non c’è più, ma il risultato che Seidl ci mostra non è esattamente quello che racconterebbero i politici: a Est come a Ovest c’è lo stesso degrado morale, lo stesso orrore urbanistico; le periferie di Vienna non sono molto diverse da quelle, terribili, dell’Ukraina, e anche il tempo atmosferico (lungo tutto il film non esce mai il sole) contribuisce a un’unità europea nel segno delle nubi e dello squallore. I corpi sono merce, sia di qua che di là: Olga arrotonda esibendosi nuda in una chat porno, mentre il patrigno di Paul cerca sesso a pagamento dovunque vada. Come sempre nel cinema di Seidl, nulla è simulato: i personaggi non sono attori, le angherie psicologiche e gli atti sessuali sono autentici, così come le sofferenze dei malati terminali. Il film è caldamente sconsigliato a chi, al cinema, cerca bellezza e divertimento.
Il Paul di Seidl e l’Alex di Van Sant si somigliano molto. Sono ragazzi deboli che non diventeranno mai maschi «Alpha», non saranno mai gli elementi dominanti del branco. Sono gregari che lottano per sopravvivere. America ed Europa, Est e Ovest si ritrovano uniti dalle gerarchie sociali e dalla sopraffazione. La differenza è che il film di Van Sant riesce a trarre da tutto ciò una struggente bellezza, grazie anche al sapientissimo uso delle musiche (nelle quali spicca un inaspettato omaggio a Fellini, con brani di Nino Rota da Giulietta degli spiriti e da Amarcord); mentre il film di Seidl è di una sgradevolezza molto «di testa», che può (e vuole) disturbare. Per questo Van Sant può ambire alla seconda Palma, mentre Seidl difficilmente vincerà la prima.

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DOC
Il film «piccante» dal Sundance

Cavallo, sono tutto tuo «Zoo» induce il sonno

di Gabriella Gallozzi
inviata a Cannes

Passato con grande scalpore al Sundance è arrivato ieri sulla Croisette uno dei film eletti a «scandalo» di questa edizione 60 di Cannes. È Zoo, il documentario dell’americano Robinson Devon, ispirato ad un fatto di cronaca, dai risvolti oscuri: nel luglio 2005 un ingegnere di una importante multinazionale americana muore in ospedale per una perforazione al colon. Le indagini sveleranno che responsabile dell’incidente è stato il suo amante: uno stallone purosangue. Scenario dell’accaduto, una fattoria nello stato di Washington, dove un gruppo di «zoofili» erano soliti riunirsi. Seguiranno il linciaggio da parte dei media, pronti a cavalcare, è il caso di dirlo, lo scandalo. Le accuse degli animalisti, una legge che vieta i rapporti con gli animali e, persino, la castrazione dell’ignaro purosangue.
Tutto questo ci racconta Zoo, appunto, ma senza alcuno «scandalo» come invece si sarebbero aspettati in molti, visto il tema. Il regista, infatti, cerca di seguire le vite del gruppetto di amanti degli animali cercando di raccontarcene le motivazioni più recondite. Provando a spiegarci il loro modo di ritrovarsi (avviene tutto via Internet), di stare insieme nella fattoria, di vivere il contatto con la natura nel modo più libero e sereno, al di là di ogni tabù culturale, a fronte di un un’America sempre più repressiva sul piano morale. E il tutto scegliendo di non mostrare alcuna scena scabrosa: gli incontri d’amore non vengono mai visti, i corpi dei protagonisti si muovono nell’ombra e nulla scivola nella morbosità.
Il racconto, però, resta sospeso e lo spettatore dubbioso: dopo un’ora di immagini più o meno flou e di scene agresti, poco davvero si riesce a comprendere della passione per la zoofilia. E tanto meno si realizza la denuncia contro i media che sbattono il mostro in prima pagina. Piuttosto, invece, si dormicchia anche un po’.

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