Dalla rassegna stampa Cinema

Sexy Kureishi

A Londra è al centro di polemiche dopo la censura della Bbc a un suo racconto. A Roma arriva per parlare di libertà. E qui il padre della letteratura multietnica inglese ci svela il suo nuovo libro. Un mix di erotismo, passioni, piaceri e conflitti colloquio con Hanif Kureishi

Sheperd’s Bush, West London: il clamore vivace della strada entra nel caffè dove Hanif Kureishi abitualmente concede le interviste. L’uomo che negli anni Ottanta, con ‘My Beautiful Laundrette’ e ‘Il Buddha delle periferie’, ha dato voce alla Londra multiculturale, raccontando le storie di personaggi ai margini (immigrati, omosessuali, tossicodipendenti), lo scruta come se fosse il probabile teatro di un’imboscata e non il luogo dietro casa che frequenta da anni. Raramente Londra è stata dipinta, raccontata, ‘prevista’ come nei romanzi, nelle commedie e nelle sceneggiature di Hanif Kureishi. Lo scrittore, di padre indiano (non pachistano, come si scrive solitamente), immigrato di prima generazione dopo la partizione fra India e Pakistan, e madre inglese, parlava già vent’anni fa di temi che oggi sono cronaca: fondamentalismo religioso, scontro generazionale, integrazione, assimilazione. Il tutto attraverso la lente della famiglia, analizzata con occhio spesso sarcastico nel suo farsi e, più spesso ancora, nel suo disfarsi. Cinquantatré anni, Kureishi non ha mai sofferto di quello che si definisce ‘writer’s block’, l’incapacità temporanea di scrivere. Dopo il fulminante esordio, ha continuato a produrre romanzi e sceneggiature con invidiabile puntualità. I temi sono sempre i suoi: sessualità e desiderio (l’amore ‘intergenerazionale’ raccontato nei film ‘The Mother’ e in ‘Venus’, non ancora uscito in Italia), la storia della difficile integrazione degli immigrati delle ex colonie e della sua famiglia (nell’autobiografia ‘Il mio orecchio sul suo cuore’) e, ultimamente, uno sguardo acuto alla tensione crescente fra la comunità musulmana britannica e il resto del Paese nella raccolta di saggi ‘La parola e la bomba’ (Bompiani). Proprio ora Kureishi è al centro delle polemiche. Ha protestato perché la Bbc ha cancellato la trasmissione di un suo racconto dal titolo ‘Weddings and Beheadings’ (matrimoni e decapitazioni). “È una storia molto breve”, dice Kureishi, “il protagonista è un giovane cameraman iracheno con velleità cinematografiche costretto a filmare le decapitazioni degli ostaggi, quelle immagini che poi finiscono in Rete e su Al Jazeera. È una black comedy. È stato selezionato per il premio National Short Story. Ne è stato fatto anche un cortometraggio, diretto da Amir Jamal. Lo hanno rimandato perché somiglia alla situazione del giornalista Alan Johnston, prigioniero di guerriglieri palestinesi a Gaza. Ma sono sicuro che Johnston stesso deplorerebbe questa autocensura, che equivale a legittimare l’agire dei terroristi”. Il parlare di Kureishi è rapido, le frasi concise, l’accento londinese marcato, l’ironia, nera. Questa intervista esclusiva a ‘L’espresso’ è stata concessa in occasione della sua partecipazione al festival di Filosofia a Roma a maggio.

Signor Kureishi, lei verrà a Roma, dove dibatterà di religiosità e secolarismo con Tariq Ramadan. Vi conoscete già?

“No. So che è un intellettuale arabo nato in Svizzera e residente a Parigi. E che è un simpatico fondamentalista islamico. Di certo non parleremo della partita fra Manchester United e Roma (Kureishi è tifoso del Manchester United, ndr). Ma sarà una discussione pacata, io da laico, quale sono sempre stato, lui da religioso”.

Parliamo allora dell’incontro tra culture e religioni. Lei è nato e cresciuto a Londra, città considerata uno dei migliori esperimenti multiculturali del mondo.

“Solo certe zone di Londra sono multiculturali. Io vivo a Sheperd’s Bush, che lo è. Ma c’è una profonda differenza tra Londra e l’Inghilterra. Lo scorso weekend sono andato sulla costa a sud. Quasi non ci sono persone dalla pelle scura, predominano i bianchi working class. Sembra di essere negli anni Cinquanta. Per questo non credo che zone come Sheperd’s Bush possano essere considerate come rappresentative, in particolare se pensiamo alla circolazione di soldi nel Paese in generale e la paragoniamo alla miseria di certe zone di Londra. Ma sembra che tutto sommato funzioni. Le persone si ammazzano fra di loro non soltanto per questioni razziali”.

Le differenze culturali, religiose non sarebbero meno evidenti se ci fosse una più equa distribuzione della ricchezza?

“Viviamo nel mondo creato dalla Thatcher. Questo è quello che lei voleva e che si è realizzato. È il suo trionfo. L’etica ipercapitalistica che lei ha propagandato è in piena fioritura con il suo pendant della celebrity culture e del consumismo, trascurando completamente le altre cose di cui la gente ha bisogno. Non è affatto sorprendente che da una parte ci sia un ritorno delle religioni in versione radicale, mentre dall’altra la società diventa sempre più materialista”.

Lei ha coniato il termine ‘occidentalismo’, parafrasando Edward Said che parlava di ‘orientalismo’, un mondo di fantasie e proiezioni che gli occidentali fanno quando parlano dell’Oriente.

“Quest’idea che l’Oriente è spirituale e l’Occidente no, è una fantasia. Così come l’idea che l’Oriente sia un unico blocco fondamentalista è ridicola: ci sono persone che seguono la religione e persone che seguono il comunismo. Vogliono le stesse cose che vogliamo noi. Per questo credo che le immagini reciproche di Oriente e Occidente siano distruttive e inquietanti. Le fantasie sono spesso peggio della realtà. Quanto di ‘spirituale’ c’era nelle culture orientale e mediorientale è stato assorbito dal cosiddetto Occidente liberale. Ma non mi chieda che cosa succederà tra cinquant’anni perché non ne ho la minima idea. Forse ci sarà l’imporsi di sempre più religioni”.

Anche in Gran Bretagna succederà quello che sta succedendo negli Usa?

“Gli inglesi non hanno lo stesso zelo religioso di molti americani. E una società come quella che c’è in alcune parti di Londra è profondamente insolita, con enclavi religiose in una struttura prevalentemente secolare. Trovo paradossale che la religione stia tornando proprio nel momento in cui sembrava che gli unici valori di riferimento fossero profani: il consumo e la fama”.

E allora, perché torna la religione?

“Le religioni danno alle persone quello di cui hanno bisogno, permettono di sentirsi al sicuro, di tenere le cose sotto controllo. Tutto è deciso dai mullah. La sessualità è violentemente repressa. È come essere tornati bambini, per questo a molti va bene”.

Intende dire che religioni e culture orientali sono a uno stadio ancora infantile?

“””È un modo di vivere che tiene alla larga un sacco di cose che troviamo inquietanti: il nostro rapporto con il piacere, con il vizio, le droghe, il denaro, l’avidità, tutte cose con le quali spesso dobbiamo convivere, le relazioni frammentate, famiglie smembrate e via dicendo. Per questo per molte persone è preferibile affidarsi a quel tipo di vita. È molto protettivo. Altrimenti, tutto è più difficile. Ci si sente isolati. Ma posso anche comprendere la rabbia per la ricchezza dell’Occidente”.

Il divario ricchi e poveri c’è sempre stato. Non sarà l’accesso indiscriminato alla comunicazione ad aver esacerbato gli animi?

“Sicuramente. E anche il fatto che il modello reclamizzato è un modello pseudo-egalitario in cui chiunque, domani, potrebbe diventare una celebrità. Più stupidi e ignoranti si è, più chances si hanno di diventare famosi. E questo provoca un sacco di invidia nelle persone. Ci si chiede: ‘Perché non io?’, mentre nel passato le barriere sociali erano impenetrabili. Se eri working class sapevi che mai, in nessun modo, saresti diventato un re. Il pensiero di diventarlo non ti avrebbe mai disturbato perché era semplicemente impossibile. Le cose erano, in un certo senso, più semplici”.

Lei è il padre fondatore della scena multiculturale. È vero che nel mondo editoriale inglese c’è la caccia allo scrittore ‘esotico’ a tutti i costi?

“Dopo la pubblicazione di ‘My Beautiful Laundrette’ si aprirono le porte a un mondo di autori che fino ad allora erano stati emarginati. Non si vedevano mai neri o asiatici in tv, mentre i lavori di scrittori indiani o caraibici nelle librerie erano relegati in una sezione chiamata ‘Commonwealth Writing’. L’uscita di quel libro permise ad altri scrittori di essere considerati britannici e produsse la famosa domanda ridicola che tutti mi facevano: ‘Chi è lei? Pachistano, britannico, inglese?’. Ma soprattutto l’opportunità di raccontare storie che erano del tutto nuove”.

Qualcuno dice che il mercato si è allargato a scapito della qualità.

“Non è vero. Intanto, sono venuti fuori talenti veri: gente come Zadie Smith, Monica Ali, una serie di registi, attori, ballerini. È stata una rivoluzione. Improvvisamente da inglesi che erano, i nomi degli scrittori cominciarono a diventare indiani. Kiran Desai e Arundhati Roy che vincono il Booker Prize. È stato straordinario vedere il Terzo Mondo diventare il centro della scena. E come per tutte le scene letterarie, in parte è di buona qualità in parte di pessima. Ma succede anche agli scrittori irlandesi”.

Londra è migliorata da quando lei era un adolescente?

“Quando mi trasferii nella città vera e propria, a metà anni Settanta, era in pessimo stato, sembrava fosse stata appena bombardata. Povertà, disoccupazione, case semidiroccate. In questi anni c’è stata invece una rivoluzione. La città è quasi irriconoscibile. Certo, c’è il rischio che diventi una ‘città boutique’. Ma non credo che succederà, perché c’è troppa immigrazione. L’immigrazione tiene Londra viva, a differenza ad esempio di Parigi, una vera città-boutique. Nel centro di Parigi c’è solo gente bianca, mentre Londra è mista ovunque. Il centro di Parigi è un posto per turisti, mentre a Londra anche in centro la gente ci vive e lavora. Parigi diventerà come Venezia, Londra no.”.

Dicono che lei ha una vena ironica e sarcastica molto forte. Da dove le viene?

“E tipica della cultura inglese e dei suoi autori. Tutti i grandi scrittori inglesi da Chaucer a Shakespeare, da Dickens a Waugh, a parte D. H. Lawrence, sono scrittori comici. Io sono cresciuto guardando la televisione: sitcom, commedie. Amo la volgarità, le barzellette. È quello che mi piace della cultura inglese, il suo idioma. La commedia è uno dei talenti nazionali, soprattutto quella gay. Gli inglesi amano l’artificio, come i francesi. Ma mentre quello francese è un artificio sofisticato, una certa volgarità è una tipica qualità inglese”.

Lei spesso evoca la figura di suo padre, che non è mai stato religioso, né ha voluto mai andare in Pakistan, dove la famiglia si era stabilita: ma a Londra ha lavorato tutta la vita nell’ambasciata pachistana, come in un’isola. Sembra voler dire che era molto ostinato e fedele ai suoi ideali laici, ma anche che ha voltato le spalle alla sua famiglia.

“Bisogna tenere presente una cosa che oggi sembra strana. Negli anni Cinquanta in Inghilterra essere indiano o caraibico significava essere considerato inferiore. Se eri un ‘paki’ (termine razzista per chiamare i pakistani, ndr) eri socialmente, intellettualmente inferiore, inferiore in tutti i sensi. Mio padre si era esposto a questo tipo di pregiudizio. Credo infatti che sia questo il significato del razzismo: sentire di essere in qualche modo vittima dei pregiudizi altrui”.

E oggi?

“Questo tipi di razzismo rozzo è in parte scomparso. Ma oggi tutti hanno pregiudizi sui musulmani”.

A cosa sta lavorando ora?

“Ho appena finito il nuovo romanzo. S’intitola ‘Something To Tell You’. È la storia di uno psicoanalista, si svolge negli anni Settanta. È pieno di personaggi, l’ho scritto negli ultimi cinque anni, e c’è molto sesso. Scrivo di sessualità perché mi appassiona quello che accade quando due persone si incontrano, l’effetto che hanno l’uno sull’altra. Per me la sessualità è spesso una metafora di quello che succede quando due persone interagiscono. M’interessa anche la bellezza, l’estetica, la sensualità, il piacere. I romanzi sono come delle soap opera. Metti delle persone assieme, cominciano a litigare e hai una storia. Sto scrivendo anche un film. Parla di una scommessa tra due amici: uno sta per sposarsi e l’altro è invidioso. Così scommette che la fidanzata dell’amico andrà con un altro prima del matrimonio: un amico suo, molto attraente. E succede così, lei ci va a letto e rovina la sua vita. È molto dark e ironico”.

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Filosofi a confronto

È solo al suo secondo anno di vita, ma il Festival della Filosofia di Roma (9-13 maggio, all’Auditorium) punta a divenire uno degli appuntamenti chiave nel panorama culturale italiano. Ideata da Giacomo Marramao, Paolo Flores d’Arcais e Antonio Gnoli, la manifestazione presenta un programma animato da uno spirito laico, ed è stata pensata intorno al tema dei Confini, inteso come luoghi dell’ibridazione culturale. Oltre un centinaio gli invitati (tra gli altri Marc Augè, Gianni Vattimo, Eugenio Scalfari, Fernando Savater), 18 le tavole rotonde. Di eutanasia come prospettiva etica e scientifica e dei confini della vita parleranno Eduard Verhagen, pediatra olandese che ha affrontato il problema dell’eutanasia infantile e Ignazio Marino. Sulla figura di Gesù di Nazareth discuteranno Corrado Augias, padre Raniero Cantalamessa, Paolo Flores d’Arcais e Paula Fredriksen. Poi ci sono confronti a due chiamati Quodlibeta: spicca l’agone di domenica 13 tra Hanif Kureishi e l’intellettuale islamico Tariq Ramadan, che parleranno di libertà individuali e collettive e tradizioni religiose. Sette saranno invece le lezioni magistrali tra cui l’intervento del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, teorico del ‘postumano’ e della clonazione (a fine maggio per Meltemi esce il suo ‘L’aria trema’), che parlerà dei confini della storia culturale e filosofica della globalizzazione.

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