Dalla rassegna stampa Cinema

Ciao Hollywood Rudy sognava di rivolgersi a Sud

Il 23 agosto 1926 dopo un intervento chirurgico per appendicite perforata, moriva a New York il più famoso e amato attore di tutti i tempi. Aveva solo 31 anni e la sua parabola umana entrava nella leggenda: giovane squattrinato in cerca di fortuna, bisessuale adorato dalle donne alle quali preferì …

Il 23 agosto 1926, ottant’anni fa, dopo un intervento chirurgico per ulcera gastrica e appendicite perforata, moriva al Policlinico di New York il più famoso e amato divo di tutti i tempi, Rodolfo Valentino. Vi era stato ricoverato d’urgenza dieci giorni prima, dopo essersi sentito male in casa di un amico a New York, dove si era recato per presenziare all’anteprima del suo ultimo film, Il figlio dello sceicco. E anche in tale occasione non mancarono le maligne congetture sulla natura del «ricevimento» svoltosi la sera prima in casa dell’amico, che alludevano a «un’orgia» consumatasi fra le discrete pareti dell’elegante appartamento newyorkese. Destino di un attore la cui vita privata restò sempre oggetto di maliziose supposizioni, che non mancarono di avvelenargli le soddisfazioni di un successo che mai si era verificato in pari misura per altri attori a lui contemporanei, che pure non mancarono né furono privi di talento nella Hollywood del muto.
Aveva appena trentuno anni e la sua scomparsa prematura, che ha contribuito ad alimentare il suo mito, prefigura altre e parimenti sconvolgenti scomparse di divi che si sarebbero verificate nei decenni successivi (non morirono giovani anche James Dean e Marilyn Monroe, pure entrati, al pari di Valentino, nel mondo della leggenda e dei miti hollywoodiani?)
Com’è noto, la morte dell’attore pugliese originario di Castellaneta provocò un’ondata di isteria collettiva, originata anche, e senza dubbio, da un autentico compianto, di cui ci diede un resoconto, qua e là perfino pungente nei confronti di Valentino, il grande scrittore americano John Dos Passos: «Mentre egli giaceva solennemente in una bara coperta di un drappo d’oro, decine di migliaia di uomini, di donne, di bambini gremivano le vie all’esterno. A centinaia vi furono calpestati, ebbero i piedi schiacciati dai cavalli della polizia. Nella pioggia e nel sudore i poliziotti persero la testa. Masse pigiate si gettarono sotto gli sfollagente e gli zoccoli levati dei cavalli. La cappella funeraria venne denudata, uomini e donne lottarono per un fiore, un brano di tappezzeria, un frammento di vetro rotto dalla finestra (…) Passarono due giorni prima che i poliziotti arrivassero a sgombrare le vie tanto da far passare tutti i fiori spediti da Hollywood e i giornali della sera a descriverli».
Mai s’era visto prima in occasione della cerimonia funebre per una celebrità un concorso di gente di tali proporzioni, perché mai prima un attore era diventato in uguale misura l’emblema di sogni aspirazioni desideri di sterminate masse di spettatori, pur tenuto conto di quanto la macchina organizzativa hollywoodiana aveva sapientemente saputo creare intorno a lui, forse non immaginando che i risultati sarebbero andati ben oltre ogni previsione: infatti una altrettanto incisiva strategia «pubblicitaria» era stata apprestata anche per altri divi, in una stagione che non fu certo avara di grandi personalità.
Se il nostro Valentino sorpassò tutti, al punto di configurarsi come il più straordinario esempio del divismo novecentesco, le ragioni vanno individuate in qualità personali che gli appartengono in maniera esclusiva, che mai le astuzie dei talent scouts avrebbero potuto attribuirgli senza solidi motivi. La bellezza, l’innato, non comune, talento (perché l’attore si rivelò anche un ottimo interprete), lo charme naturale furono esaltati dai personaggi interpretati nei film ai quali partecipò, in cui una mascolinità primordiale – che tanto affascinava le donne e irritava gli uomini che avvertivano oscuramente la propria inadeguatezza nel confronto – si accompagnava ad una eleganza e una grazia tanto autentiche quanto insolite in un uomo e che pochi attori in seguito avrebbero saputo riproporre con pari spontaneità. Non deprecarono molti giornalisti in lui, infatti, l’attore che col suo comportamento, il suo proverbiale fascino latino aveva «compromesso» la virilità americana? Ulteriore contraddizione di un personaggio molto meno lineare di quanto possa essere spiegato da affrettate definizioni.
Come che sia, tutto ciò fu la causa nascosta dei tanti pettegolezzi che circolavano su di lui e che si riassunsero nel sarcastico epiteto con cui un giornalista lo definì sulle pagine di un giornale, «piumino di cipria», e che da allora in poi lo avrebbe tanto amareggiato, tanto che – risvegliatosi dopo l’operazione – e conscio del coraggio di cui aveva dato prova nel sottoporsi all’intervento, chiese al chirurgo: «ebbene, vi sembra che mi sia comportato come un piumino di cipria?».
Un suo attendibile biografo, Alexander Walker, ha parlato della sua bisessualità più o meno repressa, ma talvolta anche esibita (peraltro molto diffusa nella Hollywood di quegli anni, ma non solo), che si può rintracciare nel fondo della sua personalità. Se si dice preferisse la compagnia maschile a quella femminile, il caso volle che furono le donne a decidere della sua fortuna. June Mathis, grande sceneggiatrice della «Metro» ai tempi del muto, segnalò il bel Rudy, fin allora pressoché uno sconosciuto, come interprete ideale del maschio latino per I quattro cavalieri dell’Apocalisse che Rex Ingram si accingeva a realizzare. La prestigiosa e potente cineasta aveva visto giusto, perché il primo film di successo, un grande successo, di Valentino fu proprio questo, che lo rese famoso in tutto il mondo (l’attore ne aveva girati prima una ventina, in ruoli secondari). E fu poi la sua seconda moglie, Natasha Rambova (ma il nome russo nascondeva un molto più americano Winnifred Shaughnessy) a seguirne costantemente il cammino artistico, con suggerimenti e consigli, anche ai registi, che la resero perfino invisa, ma che tuttavia non furono ininfluenti per la carriera del marito.
L’ideale romantico che l’attore incarnava si impose ad onta dell’incipiente processo di massificazione che caratterizzava la società americana nel primo scorcio del Novecento e che denunciava di per sé una naturale inconciliabilità con la figura proposta dal Valentino, il quale invece perpetuava con la sua immagine, coi personaggi che incarnava sullo schermo un modello «datato», certo, ma che evidentemente mostrava una straordinaria capacità di resistenza rispetto all’incalzare dei gusti e delle esigenze della società di massa. In questa contraddizione sta la forza del suo mito, che, al di là del processo di «deperimento» cui soggiace la parte più caduca del cinema cui dette vita, mostra ancora di uscire indenne e perfino vincente dai capricci e dalle oscillazioni del gusto. È questa peraltro, più in generale, la forza e il senso del divismo, quello della Hollywood nella sua stagione d’oro e che non a caso oggi è pressoché inesistente. Non ebbe nulla di contraddittorio ai modelli hollywoodiani questo tipo di divismo, certo, ma il suo collocarsi, per così dire, al di là del tempo può aiutarci a spiegarcene la sopravvivenza proprio nel cinema che è ritenuto comunemente il regno dell’effimero, e il motivo per cui, a distanza di ottanta anni dalla sua scomparsa continuiamo a ricordare il giovane di Castellaneta, emigrato poco più che adolescente nel Nuovo Mondo (ritornerà per una breve vacanza nella sua terra natale al colmo della fama) e che in una delle sue poesie (ne scrisse anche e non certo banali), disse: «Il vento soffia verso levante / voglio rivolgermi a sud: / ho le narici colme di odori / di cose morte».

Effettua il login o registrati

Per poter completare l'azione devi essere un utente registrato.