Dalla rassegna stampa Cinema

«20 centimetros», quando il trans non fa scandalo né l’Almodovar

A LOCARNO Momenti riusciti e altri meno nel film madrileno di Salazar, visivamente fantasioso ma debole nel racconto «Mirrormask»

A Locarno lo «scandalo» si misura in centimetri. Per la precisione, venti, come srotola il titolo-manifesto del film spagnolo 20 centimetros del regista Ramon Salazar, proiettato ieri nello scaffale principale del concorso e che ha come protagonista la figura di un transessuale pre-operazione. E visto il grande strombazzare mediatico che ha preceduto l’arrivo della pellicola, le aspettative si erano infittite, dividendo chi si aspettava la solita deriva «precotta» in cui si rinsaccano gli scandali festivalieri e chi invece già pregustava manicaretti almodovariani. Ebbene, non c’è stato né l’uno né l’altro, perché il film, evitando l’impatto frontale con il tema di fondo, sorvola le pozzanghere del dramma per svolazzare su toni più scanzonati ed esuberanti. Una virata «evasiva» che si alimenta in una discontinuità d’ambiente, visto che a una routine sviscerata nei suoi scampoli più minimi e crudi fanno da contraltare squarci onirici causati da narcolessia e tinteggiati con siparietti da musical. Insomma, qui sogno e realtà non si fondono in una narrazione grottesca, ma si divaricano e funzionano a corrente alternata. Del resto, anche la vita dell’appariscente fanciulla (Monica Cervera) che all’anagrafe risponde al nome pomposo di Adolfo è tutta giocata intorno al doppio di una personalità in cerca di una sua ridefinizione. Per farlo però deve affrancarsi da quell’anatomia maggiorata che si ritrova sotto la cintola e che la rende attrattiva non soltanto sui marciapiedi di Madrid, ma anche nei confronti dell’aitante fruttarolo per cui prende una sbandata sentimentale. Infilando luoghi d’emarginazione e riscatti verso scale di valori rigorose, il film incolla momenti riusciti ad altri in cui la storia sembra insabbiarsi, sfilacciando i ritmi narrativi.
E se in 20 centimetros la protagonista si discosta dalla realtà per ritemprarsi nella sua immaginazione, con Mirrormask, l’altro film in concorso del regista-disegnatore Dave McKean, si scorre su binari opposti. Lì, la quindicenne Helena (Stephanie Leonidas) si ritrova inscatolata in un mondo fantastico da cui cerca in ogni modo di uscire per riappropriarsi della vita di tutti i giorni. Un viaggio iniziatico nelle spire di un immaginario da Alice nel paese delle meraviglie che visivamente si muove in modo virtuoso, ma supportato da tralicci narrativi troppo friabili. Tra libri volanti, gatti alati e scale a chiocciola che si avvitano verso il cielo, la parabola adolescenziale della ragazza finisce in un flipper di effetti che alla fine perde di vista la pallina principale e si sfalda nel suo insieme. La rincorsa verso una presa di coscienza matura diventa così il fiacco pretesto per un’esibizione muscolare di illustrazioni animate.
Scandaglia un altro tipo di presa di coscienza, invece, la corrosiva performance di Marina Confalone nel bel monologo Raccionepeccui orchestrato da Giuseppe Bertolucci e presentato nella «competizione video» del festival. Una confessione di radice teatrale, filmata in una nudità scenografica portata all’estremo, proprio per lasciar debordare un cortocircuito linguistico dove si centrifugano parlate meridionali, stilemi dialettali, slogan pubblicitari e frammenti di burocratese. Come testimonia il «raccionepeccui» con cui la protagonista puntella le svolte «logiche» del suo racconto. Un racconto singhiozzato e «deviato» che ripercorre le tappe bruciate di una vita a colpi di trauma, passando dalle goffaggini delle prime battute fino ai risvolti più drammatici del finale «psichiatrico» da cui filtra un omaggio a Franco Basaglia.

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