Il sesso non sarà per caso qualcosa di sopravvalutato? Non sarà che per caso se ne parla e lo si rappresenta più di quanto in realtà la gente lo pratichi e – peggio – ne senta veramente un bisogno “attivo”? Vorrei non essere presa troppo sul serio. Ma la domanda nasce dalla visione di uno dei film più divertenti e meglio costruiti di questa stagione, “Boogie Nights”, diretto da Paul Thomas Anderson, un regista di ventisette anni alla seconda prova, che discende e gareggia ad alto livello – per atmosfere e ispirazione, per come mescola irregolarità e familismo, colore e violenza, piani sequenza magistrali e storie infinite – con Altman e Tarantino, il Milos Forman di “Larry Flint” e lo Scorsese di “Quei bravi ragazzi”. L’inquietante quesito dell’incipit nasce dal fatto che in “Boogie Nights”, che è un grande quadro dell’industria porno a Los Angeles agli inizi degli Anni 70, il sesso è continuamente messo in scena – e non simulato. Ma gli stessi che di questa rappresentazione vivono ne fanno, nella vita privata, molto poco, ai brividi caldi preferiscono le coccole, alle avventure il calore familiare: il sesso è la professione, la tenerezza della famigliastra che attorno a questa industria si crea è la temperatura vera della vita. Così che “Boogie Nights”, pur nella sua esplicitezza, è un film di rara paradossale castità. Dal mondo del porno Anderson è sempre stato affascinato, visto che già dieci anni fa, ancora teenager, aveva girato un video sulla stessa storia: che ha un modello vero, la pornostar John Holmes, il quale non fece una bella fine… Ma il vero protagonista di “Boogie Nights” – anche se non lo si vede mai, salvo in una malinconica esibizione finale – è un membro maschile di dimensioni eccezionali. Il “dono speciale” che porta Eddie Adams, sguattero in un night, ammiratore di Bruce Lee e molto disponibile, a diventare Dirk Diggler, divo del porno (l’attore si chiama Mark Wahlberg, ed è una scoperta). Il suo Pigmalione è Jack Horner (Burt Reynolds), celebre regista porno, che lo prende sotto la sua protezione e sotto il suo tetto, lo trasforma in una star, e un bel giorno, quando il giovinotto per troppa cocaina e troppo successo comincia a dare i numeri, lo sostituisce con un altro. “I miei film hanno salvato migliaia di relazioni”, si vanta Horner, cultore soave e paterno del sesso cinematografico come terapia (dando con ciò una parziale risposta ai miei interrogativi). Attorno a lui la famiglia del porno è composta dalla bella Julianne Moore – che, allontanata per indegnità dal suo bambino, incarna la figura materna del clan -, da Heather Graham, che si è assunta il ruolo della figlia e non si leva i pattini a rotelle neanche durante le sue performances erotiche, dal Colonnello, paterno finanziatore di tutta l’impresa (è Robert Ridgely, a cui il film è dedicato, veterano di Hollywood da poco scomparso e amico di casa Anderson). Il mondo attorno è quello felice prima dell’Aids: Anderson rievoca brillantemente l’estetica degli hot pants e delle zampe di elefante, degli zatteroni e delle piscine alla Hockney, nel contesto dell’allegra follia di un’epoca in cui tutto sembrava lecito e possibile e che, sotto l’egida della rivoluzione sessuale, aprì i circuiti cinematografici normali al porno e attribuì a un personaggio centrale del caso Watergate il nome cinematografico di Linda Lovelace. Ma, come ben sappiamo, il mezzo è il messaggio. L’ascesa e la caduta della sexystar Dirk Diggler coincidono, in “Boogie Nights”, con la trasformazione del “medium” dalla pellicola (e dalle sale cinematografiche) alla solitaria fruizione dei video – trasformazione pilotata nel film da un finanziatore che ha tutta l’aria di essere un emissario della mafia. E al confronto con il poi e le sue tragedie, quella che Anderson rievoca, con una straordinaria maturità di sceneggiatore e di regista, finisce per sembrare quasi un’età dell’innocenza.
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