Chant d'amour

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Chant d'amour

Vertice di poesia cinematografica questo breve film in bianco e nero dello scrittore omosessuale Jean Genet ha fatto sognare intere generazioni di gay. E’ stato definito un inno all’omosessualità, al desiderio omosessuale, ma io credo che sia soprattutto un inno all’amore in assoluto. E’ un vero peccato che questo sia l’unico film girato da Genet. Scandaloso pensare che il film abbia girato nei primi anni solo come film pornografico tra privati collezionisti. Tra i vari registi che si sono richiamati a questo capolavoro ricordiamo Todd Haynes con il film “Poison” del 1991. “Non c’è fumo senza incendio; un Chant d’amour è una comunione con la quale Jean Genet ci accompagna dentro una prigione al fine di liberarci da essa” Derek Jarman.

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8 commenti

  1. Scoperto grazie alla sorella della mia ex ragazza. Straordinario. La scena del fumo e’ una delle dichiarazioni d’amore più belle mai viste pal cinema. Grazie Genet per questa poesia in immagini!

  2. La forza erotica-sessuale-lirica di questo corto di Jean Genet è difficilmente superabile . Non viene in mente alcun altro lavoro che lo superi in concisione e intensità. Sono presenti tutti i demoni che hanno reso così unica la sua produzione letteraria : odore di morte, autodistruzione, sadismo, violenza , rapporto vittima/carnefice , sesso estremo unito a sprazzi di intenso lirismo. Forse la brevità ha reso il film un concentrato sublime di queste “caratteristiche” che sono anche il limite dei suoi romanzi , troppo “maledetti” per non cadere spesso nella fredda convenzione letteraria.
    Assolutamente da vedere. Voto 9.

  3. Un capolavoro, una forza visiva che ti rapisce dalla prima scena e non ti lascia fino alla fine, una musica incalzante che sottolinea l’ardore della passione. Una carica erotica incontenibile che trasuda dai corpi, dagli occhi, dalle bocche e da ogni poro di quei corpi igabbiati dalle mura delle celle. Ripeto un CAPOLAVORO..

  4. zuchicage

    è in assoluto uno dei miei film preferiti, una sensualità e un erotismo fatto di corpi e anima ma mai scontato, la scena più bella “il fumo”, guardatela e capirete il perchè!

  5. ginsberg

    passato da ghezzi anni fa è uno dei film (nonostante la durata credo si possa definire tale) che più ho consumato. le prime masturbazioni avvenute davanti ai fotogrammi in b/n “creati” da genet.

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trailer: Chant d'amour

https://youtube.com/watch?v=ch8cTL2tN4c

Varie

Il film è vedibile per intero su Toutibe a questo indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=ch8cTL2tN4c

Avvicinandosi a una prigione, un carceriere si accorge che il braccio di un prigioniero cerca vanamente di afferrare dalla finestra una ghirlanda di fiori che un altro recluso cerca di passargli dalla sua finestra. II carceriere, incuriosito, passeggia per il corridoio e spia nelle celle, in ognuna delle quali un prigioniero si masturba. In particolare, il suo occhio è attratto da due prigionieri in celle attigue: un giovane muscoloso e tatuato in canottiera che balla da solo ed un tunisino. Questi, magnetizzato dalla presenza dell’altro, sfoga sul muro il suo irrefrenabile desiderio di sesso: lo bacia, vi si striscia contro, lo sfrega, si masturba su di esso finché non passa attraverso una cannuccia, inserita in un piccolo foro, il fumo di una sigaretta che I’altro aspira avidamente. II carceriere, molto eccitato, irrompe nella cella del tunisino, lo frusta con la cinghia e, in un secondo momento, gli mette una pistola in bocca. Alcune scene spezzano ritmicamente il racconto: la ghirlanda che continua a ciondolare, alcuni corpi nudi aggrovigliati plasticamente in controluce e la visione del tunisino che, eccitato ancor più dall’azione del carceriere, sogna di essere romanticamente con il suo compagno in un bosco. II carceriere lascia la prigione, osservando ancora una volta la ghirlanda che ciondola senza successo da una finestra all’altra: voltatosi, non si accorge però che e stata finalmente afferrata.

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La recensione

Un chant d’amour (ossia “Un canto d’amore”) è in assoluto uno dei capisaldi del cinema gay. Colpito più volte da forti tagli censori, perché tacciato di pornografia, e circolato solo in proiezioni private od alternative, il film è definitivamente uscito dal suo oblio solo nel 1971 a Londra. Prodotto grazie a Nikos Papatakis (il regista de Les equilibristes), è l’unico film di Jean Genet, lo scrittore maledetto autore di Querelle de Brest. La vita di Genet, omosessuale e ladro, si è svolta al di fuori di ogni canone usuale e quando nel 1950 girò questo film era uscito di prigione (dove aveva trascorso molto tempo) da due anni, grazie all’interessamento di alcuni scrittori, come Cocteau o Sartre. Per lui la prigione era il luogo privilegiato del desiderio, dove la presenza di carnefici e vittime, di segregazione e di violenza, acuisce i sensi appagando come non mai ogni fantasia sessuale. Muto ed in bianco e nero, il film è stato girato in economia e con discrezione (gli stessi nomi dei personaggi e degli attori sono particolarmente vaghi). Il fatto che sia ambientato in una prigione lo rende più che mai autobiografico (come del resto tutta la sua opera), una lirica e sensuale proiezione dell’immaginario fantastico di Genet. Ma è altresì, il trionfo visivo di ogni immaginario omosessuale, in cui amore e violenza, sesso e poesia si mescolano potentemente, in un insieme di immagini riunite analogicamente (e talvolta alogicamente) con grande libertà, quasi un universo simbolico a sé stante. E’ un amore lirico nel sogno del tunisino, la sua fuga nei campi con il suo oggetto del desiderio, o i fiori di melo finalmente ghermiti; ma è un amore che si confronta con la violenza – il secondino che frusta e forse violenta il tunisino – e con il sesso, mai esplicito ma evidente in tanti simboli (la pistola nella bocca o la cannuccia con il fumo alludono ad una fellatio) e nella nudità dei personaggi, i cui corpi sono sfolgoranti di sensualità. Il film si realizza in realtà soprattutto sul piano delle immagini e degli sguardi: immagini di corpi avvinghiati in marcati controluce, che ricordano le foto di Platt Lynes, e di sguardi rubati all’intimità dei prigionieri che lo spettatore, più voyeur dello stesso secondino, riesce a spiare.
Recensione di Vincenzo Patanè da “A qualcuno piace gay” (La libreria di Babilonia, 1995)

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