Sébastien Lifshitz

Sébastien Lifshitz
Aggiungi ai preferiti
  • Data di nascita 21/01/1968
  • Luogo di nascita Francia/Neuilly-sur-Seine

Sébastien Lifshitz

Nato nel 1968 a Neuilly-sur-Seine. Studia storia dell’arte a l’Ecole du Louvre e a l’Université Paris I. Tra il 1989 e il 1992 è assistente alla Conservazione al centro Arte Contemporanea Georges Pompidou, poi lavora come assistente della fotografa Suzanne Lafont. Nel 1993 realizza il suo primo corto-metraggio “Il faut que je l’aime”, selezionato in diversi festival. Nel 1995 fa un documentario su Claire Denis, “Claire Denis la vagabonde”, dopo il quale diverrà suo assistente per “Nénette et Boni”. Il suo medio-metraggio “Le Corps ouverts” è selezionato per numerosi festival internazionali e vince il premio Jean Vigo nel 1998. Acquista fama e notorietà internazionali coi film “Presque rien” e soprattutto con “Wilde Side” del 2004 che vince due premi al festival di Berlino.
Lifshitz è da sempre omosessuale dichiarato e nei suoi film è spesso presente l’omosessualità o la diversità sessuale, considerate non come problema in sé, ma come un dato di fatto, una realtà da considerare allo stesso modo di qualsiasi altra.
Nell’intervista pubblicata su SegnoCinema di marzo-aprile 2006 ha dichiarato: ” la questione dell’omosessualità era spesso trattata con archetipi, spesso come pretesto per commedie. Non era mai abbordata in altro modo, o solo raramente. Ci sono pochi film che hanno posto tale questione nel cinema francese che non fossero delle commedie. Penso a “L’homme blessé” di Patrice Chéreau, molto particolare in rapporto al problema. Generalmente la questione veniva piuttosto dall’estero, da Fassbinder, Pasolini, Almodóvar, Visconti, ma raramente è stata posta in Francia. Da parte di una certa generazione di registi che venivano dalla Nouvelle Vague c’era forse un’ondata di omofobia. L’omosessualità era o una non-questione o era abbordata sul versante femminile come un fantasma eterosessuale di base. Si può trovare in alcuni cineasti della Nouvelle Vague questa rappresentazione, talvolta crudele (penso a Godard in “Masculin Féminin”, dove c’è un personaggio gay che il regista pone in modo molto negativo, se non crudele; o a Truffaut ne “L’ultimo metrò” e in altri film in cui ci sono lesbiche) o comunque secondaria, discreta, non affermata. Mentre negli altri cineasti stranieri citati, questa stessa questione è rivendicata quasi come politica. Quando ho cominciato a lavorare nel cinema non avevo voglia di abbordarla in forma politica o come critica sociale. Credo che gli omosessuali della mia generazione non abbiano vissuto il problema come i registi degli anni ’70. Il bisogno di “rivendicare” non è lo stesso, la situazione dei gay si è banalizzata col tempo, c’è stata una visibilità crescente dagli anni ’80 e una volontà di mostrarsi. I gay della mia generazione non hanno dunque sentito il bisogno di rivendicare la loro identità trasgressiva e drammatica. Avevano piuttosto la voglia di dire che tutto si era banalizzato. Le domande identitarie che potevano farsi queste persone erano le stesse degli eterosessuali. Io rappresento l’omosessualità, senza farne nè un tema centrale nè un avvenimento nei miei film. Nessuna militanza. Quando mi si parla di cinema omosessuale, non sono d’accordo. Non mi sento di rivendicare un’appartenenza al cinema gay, che non disprezzo, ma non fa parte delle mia intenzioni di lavoro.”
———————

Dal saggio di Adriano De Grandis, Quasi niente quasi tutto dedicato al cinema di uno dei registi francesi più interessanti della scena contemporanea, Sébastien Lifshitz. L’analisi si concentra per lo più sulla caratterizzazione dei personaggi, storie di giovani con un passato oscuro e tormentato, resi dalla vita precocemente non più giovani. La vita “li obbliga a una revisione precoce, a una ricerca ossessiva di un equilibrio prematuro, ma indispensabile, che risiede nel bisogno di codificare gli anni trascorsi, in un riepilogo traumatico dei primi errori, degli iniziali rimpianti” (p. 9). E’ chiaro allora che nel cinema di Lifshitz si possano rintracciare degli stilemi ben riconoscibili e comuni tra un film e l’altro. Tutti i film partono, ad esempio, da una fuga, e si trasformano ben presto in road movie esistenziali, è centrale l’assenza dei padri (come male “necessario” per lo sviluppo delle personalità dannate dei figli), è marcatamente presente una spiritualità dei corpo, anche dura, perché la fisicità è la vera lingua di questi personaggi e anche, a volte, l’unico mezzo per un possibile contatto umano. Stilisticamente (soprattutto in Quasi niente e Wild Side) Lifshitz si immerge a pieno nello sbandamento continuo dei suo ragazzi grazie soprattutto all’uso incondizionato delle ellissi, “in una frammentarietà affascinante e sospesa, che mette lo spettatore nella possibilità di cogliere i diversi, mutanti aspetti dei personaggi” (p. 11). La gioventù diventa allora l’unico tempo possibile della manifestazione dell’io e delle illusioni non consolabili. Forse il film che meglio rappresenta questa tensione poetica è proprio La traversée (2001). L’intervista seguente, fatta allo stesso Lifshitz, chiarisce per bocca dello stesso regista, alcuni snodi fondamentali della sua poetica. (Drammaturgia.it)

Sébastien Lifshitz è presente in queste opere:

Visualizza contenuti correlati

Condividi

Commenta


Effettua il login o registrati

Per poter completare l'azione devi essere un utente registrato.