Rainer werner Fassbinder

Rainer werner Fassbinder
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  • Data di nascita 31/05/1946
  • Data di morte 10/06/1982
  • Luogo di nascita Bad Wörishofen - Baviera
  • Luogo di morte Monaco

Rainer werner Fassbinder

Figlio unico di Hellmuth Fassbinder, medico, e Liselotte Eder, traduttrice (anche di numerose opere di Truman Capote), Rainer Werner Fassbinder viene educato secondo i principi liberali di Rudolf Steiner, ed ancora molto piccolo, dopo il prematuro divorzio dei genitori, va a vivere con la madre, che in seguito ritroveremo in molte caratterizzazioni con lo pseudonimo di Lilo Pempeit, e che riveste un ruolo importantissimo nello sviluppo artistico del figlio. Infatti, bisogna forse ringraziare la dedizione al lavoro della madre se il giovanissimo Fassbinder, mandato così spesso al cinema per non essere d’intralcio, divenne un grande ed instancabile autore di drammi teatrali e radiofonici, nonché di film.
Dopo gli studi secondari ad Augusta e Monaco, nel 1964 lascia la scuola per trascorrere un periodo con il padre a Colonia, ed invano tenta di entrare alla Scuola Superiore di Cinema di Berlino. Inizia a fare diversi mestieri per sopravvivere e permettersi l’iscrizione alla scuola di recitazione (Friedl Leonhard Studio, Monaco) dove incontrerà Hanna Schygulla, Peer Raben e Kurt Raab.
Nel 1966 questo neo-regista ventenne si cimenta nella realizzazione dei primi due cortometraggi, che indubbiamente risentono delle ore passate in sala, e della profonda passione per autori come Eric Rohmer e Jean-Luc Godard. Insieme ai nuovi alleati si aggrega al gruppo off di Monaco Action-Theater, e con il personaggio di Bote Thiresias dell’Antigone, il 20 agosto del 1967 presenterà il primo di una lunga serie di ruoli interpretati all’interno della compagnia. Qui incontrerà un’altra figura necessaria alla sua carriera, Jean-Marie Straub.
Dopo la messa in scena di Katzelmacher, e dopo che nel maggio del 1968 la polizia decreta la conclusione di questo capitolo culturale, viene costituito un nuovo gruppo teatrale denominato antiteater, e di cui presto Fassbinder diverrà l’eclettico leader. Grazie all’antiteater, che tra le molte provocazioni raggiunse il cuore di critica e pubblico, rendendo oramai invulnerabile ed affiatatissimo il nuovo collettivo artistico, nel mezzo del quale fa anche la sua comparsa Ingrid Caven, fulminea compagna e moglie del regista, che Fassbinder potrà accedere con facilità ai finanziamenti statali, e trovare nella televisione un duraturo partner produttivo.
I dieci film che costituiscono il primo periodo, quello dell’antiteater (1969-70), rivelano una peculiare compattezza e serialità, anche se non sempre chiara, ma sicuramente intenzionale, e che possono essere distinti in un gruppo di chiaro riferimento sociale – Katzelmacher, Perché il signor R. è colto da follia improvvisa?, Rios Das Mortes, Il viaggio di Niklashauser e Pionieri in Ingolstadt – ed uno che si spinge fortemente verso il “noir” hollywoodiano – L’amore è più freddo della morte, Dei della peste e Il soldato americano, come a formare un vero e proprio trittico, e l’americanissimo Whity – per culminare in Attenzione alla puttana santa, con il quale il regista si congeda dal gruppo, e da un periodo cruciale e di svolta.
In seguito al fondamentale scontro con il cinema di Douglas Sirk nel 1971, e all’amicale sodalizio, a Lugano, con lo stesso regista, si assiste ad una esplosione d’autocritica da parte di Fassbinder. Una rivolta contro il proprio mondo cinematografico, per riformulare il ruolo stesso di autore che guarda ancora a Hollywood, ma soprattutto quello di intellettuale nei confronti di una società che necessita di credere in questo mestiere, e di essere coinvolta ed avvolta interamente da un nuovo modo di far cinema. Attraverso il segno, i movimenti e l’immagine stessa, mostrati con precisa motivazione e a discapito dell’invadente linguaggio parlato, Fassbinder sposterà l’occhio stesso dello spettatore, che da ora in avanti sarà al centro della scena, inerme e finanche imbarazzato, e non sulla propria poltrona. Questo ha ovviamente creato due differenti ondate di pensiero critico: chi lo ritiene un genio, dalle trovate sorprendenti o a volte divertenti e confusionali, e chi lo trova insopportabile per le medesime ragioni. È così che ha inizio il tentativo di “liberazione” dalla fatua realtà cinematografica, in cui Fassbinder adotta una nuova metodologia volta a dare allo spettatore il coraggio sia di emozionarsi dinnanzi alla struttura stessa del melodramma, ma anche e soprattutto la possibilità di riflettere e analizzare di continuo i fatti e le provocazioni, al fine di trovare lui stesso una soluzione; non quindi un realismo dettato dall’autore, ma un altrettanto valido esempio formulato nella mente di chi percepisce.
A questo riassestamento emotivo e ideologico ne fa eco uno professionale, con la costituzione della casa di produzione Tango Film, e con il primo lungometraggio da questa sfornato, accolto positivamente sia dalla critica che dal pubblico, Il mercante delle quattro stagioni. Con Le lacrime amare di Petra von Kant, il regista, nel 1972, regala una importante e laminata pagina della storia del cinema mondiale, con raffinate panoramiche ed elaboratissime carrellate, imprigionando ancora una volta lo spettatore imbarazzato, e sospingendolo nel bel mezzo di una tempesta amorosa, in cui chi ama è costretto a soffrire e far soffrire, come Fassbinder instancabilmente vorrà sentenziare opera dopo opera. Come accadrà negli anni successivi, è Margit Carstensen, secca e sofisticatissima attrice, a delineare l’immagine della tipica donna borghese, qui ingabbiata con le altre donne, mentre si vampirizzano a vicenda a causa del loro fallimento con gli uomini o nei confronti della stessa società.
Dopo un’importante parentesi televisiva – Otto ore non sono un giorno e Il mondo sul filo – ad opera della fedele WDR, Fassbinder torna al cinema con La paura mangia l’anima, che mostra le difficoltà di Emmi, vedova sessantenne, e Alì, giovane lavoratore marocchino, nel farsi accettare dalla società come coppia, e dimostrare il vero bisogno che hanno l’uno dell’altra, in un vago rifacimento a Secondo amore di Douglas Sirk del 1955. Assistiamo con chiarezza al modo in cui questo autore intende trattare il “diverso”, non con poesia e troppa premura, come fanno già altri suoi colleghi, ma sforzandosi di assumere un atteggiamento più umano e sincero, e rivelando il prezioso appiglio del sacrificio, che personaggi come il “terrone” del 1970 sono disposti a compiere per una sola ombra di comprensione o amore, lo stesso amore che il regista brandisce più spesso e con maggior violenza contro quella borghesia, che vorrà sposare la sadomasochistica Martha, anticipando le tematiche dello stilizzatissimo Effi Briest del 1974, lasciando quindi su di essa una ferita ancor più profonda.
Nella primavera del 1974 il regista assume la direzione del Theater am Tur di Francoforte, coinvolgendo nuovamente i membri superstiti dell’antiteater, ma neppure un anno dopo la compagnia si scioglie per le pressioni interne ed esterne sguinzagliatesi ancor prima che il dramma I rifiuti, la città e la morte, accusato di “antisemitismo”, venisse rappresentato. Dopo numerose regie teatrali Fassbinder ci regala il criticatissimo Il diritto del più forte, possibile capitolo conclusivo di una trilogia sull’educazione nella coppia iniziata con Martha e proseguita con Effi Briest. La scelta dell’ambiente e dei personaggi, come volle asserire per sua difesa lo stesso Fassbinder, risulta complessivamente funzionale alla storia, come abbiamo già assistito nel caso di Le lacrime amare di Petra von Kant, perché internamente e profondamente sondati per poter conferire veridicità agli eventi, o evidenziare certi disaggi sociali conosciuti in prima persona dello stesso autore. E se con Il diritto del più forte si era alienato le simpatie della comunità omosessuale tedesca, con Il viaggio in cielo di mamma Küsters, debitore della passione per il cinema muto tedesco di Piel Jutzi, e per l’arte proletaria degli anni ’20 e ’30, Fassbinder perde la fiducia di tutta la sinistra intellettuale.
Il periodo compreso tra il 1976 e il 1977 viene spesso considerato come un periodo di sperimentazione, o di film “eccentrici”, che s’inaugura con un film-appendice ai predenti melodrammi o come una meritata pausa di stampo documentaristico, Voglio solo che mi amiate. Da un fatto realmente accaduto Fassbinder genera uno dei personaggi più delicati ed indifesi del suo cinema. Nessuna festa per la morte del cane di Satana, esplicita e provocatoria farsa nichilista sull’intellettuale piccolo-borghese, che ci appare come una sanguisuga benvoluta dalla società, rappresenta invece la sua opera più eccentrica. Roulette cinese, una delle più raffinate ed intellettuali composizioni, forma, col precedente film e il futuro Despair, una trilogia sui generis sul tema della schizofrenia e della falsa coscienza borghese, e dove i riferimenti ai grandi registi che hanno saputo creare altrettante ambientazioni “nere”, atte a mostrare i suoi ipocriti personaggi, si sprecano. Rivediamo Hitchcock e Chabrol, e maggiormente Buñuel, in una coreografia studiata con premurosa cura, una danza macabra compiuta intorno al “cadavere decomposto della moralità borghese”.
Girato in maniera abilissima, disorientante, con un elevato budget e con il supporto di attori di fama internazionale (Dirk Bogarde e Andréa Ferreol), Despair mostra come la perdita dell’identità possa essere riconquistata solo attraverso lo sdoppiamento della stessa, e verrà indicato come il film di “svolta” nella carriera di Fassbinder. In effetti, si sta entrando in quella che si può considerare l’ultima fase dell’attività del regista, e di cui il film è un’anticamera a quelli che saranno i nuovi temi: una profonda riflessione della storia tedesca che va dagli anni trenta agli anni cinquanta, dalla nascita del nazismo alla ricostruzione adenaueriana; anche se ad osservare con maggior lucidità i futuri eventi, la protagonista è sempre più la donna. Una donna privata d’ogni libertà e autodeterminazione dalla società, o una caparbia e ostinata prostituta, o ancora, l’illusa e risorta Germania. Questo affascinante melodramma, Il matrimonio di Maria Braun, allo stesso tempo, intellettuale e popolare, segna anche l’avvicendarsi di possibilità economiche sempre maggiori, nonché il pretesto per lavorare con attori di maggior richiamo.
Un’importante parentesi però è offerta dall’episodio del film collettivo Germania in autunno, che riveste anche un momento personalissimo nella vita stessa del regista, il quale mette in scena la propria follia, l’identità sessuale ed affettiva, come farà nel successivo Un anno con 13 lune, e dove alle scene girate in casa propria assieme al maltrattato compagno Armin Meier fanno da “specchio” quelle in cui Fassbinder discute con la madre borghese, e nel tentativo di mettersi totalmente a nudo, convince profondamente, perché mostra ancor di più la sua impotenza ed insana prigionia. Nell’estate del 1978 la tragedia si compie. Armin Meier si suicida, dando così origine a quel personalissimo capolavoro sulla legittimità dell’estremo gesto, e in cui Fassbinder si occuperà anche della produzione, del montaggio e ne disegnerà la splendida luce. Un anno con 13 lune è un ironico “atto d’accusa verso la società che spinge le persone al gioco delle parti”, ma è anche uno stigmatizzato sentimento del rincorrere un destino già assegnato, chiamato ad alta voce dall’ennesima eroina fassbinderiana, brutalizzata, martoriata sia dalla società che dal proprio narcisismo.
Dal torrenziale romanzo di Alfred Döblin, nel 1980 Fassbinder ricava uno sceneggiato televisivo di 15 ore, Berlin Alexanderplatz, riportando un meritatissimo successo all’indomani della prima alla Biennale di Venezia, e che vedrà l’Italia ancora al suo fianco per la futura produzione: un coloratissimo fotoromanzo che ricostruirà le memorie della famosa cantante Lale Andersen, l’interprete della canzone Lili Marleen.
Si giunge così all’incontro con le ultime due donne: la prima è Lola, che deluderà, perché pochi riconosceranno l’autore affezionato, e che verrà additata come una commedia leggera, capace di divertire, o addirittura inutile; e l’elegantissima Veronica Voss che, volendo così concludere una dichiarata pentalogia, si ispira al suicidio che l’attrice Sybille Schmits compì nel 1955. Con una sorprendente cura l’autore avvolge gli ottimi interpreti in uno stupendo e nostalgico bianco e nero, con l’intenzione di rivolgersi sempre più ad un pubblico d’elite o assai pretenzioso, insomma, ai frequentatori assidui delle sale d’essai, e per il quale Fassbinder si aggiudicherà l’Orso d’Oro a Berlino nel 1982.
Il 10 giugno di quello stesso anno Fassbinder viene trovato morto, consegnandolo alla storia come “autore maledetto”, grazie anche al suo ultimo straordinario film, Querelle, uscito subito dopo la sua dipartita, e presentato a Venezia, creando tanto scompiglio che l’allora direttore del festival dovette chetare le acque con una celebratissima lettera pubblica. “Misterioso, inquietante e persino barocco, come l’ultimo dei mondi costruiti intorno a se dallo stesso Fassbinder negli ultimi anni, e tanto scomodo da trovarlo inadatto a rivestire il ruolo di testamento intellettuale. Perfetto invece nelle vesti di Canto d’Amore e violenza, elegantissimo nella sua discesa verso gli inferi e simbolo stesso di un cinema che non tornerà più.”
[Daniele Del Mare]

Rainer werner Fassbinder è presente in queste opere:

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