Emile Griffith

Emile Griffith
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  • Data di nascita 03/02/1938
  • Data di morte 23/07/2013
  • Luogo di nascita Saint Thomas/U.S.V.I.
  • Luogo di morte Hempstead/New York

Emile Griffith

Griffith non ha mai sbandierato la sua diversità ma neanche l’ha mai negata: atto di forza supremo in un’epoca in cui essere neri e gay, nel pugilato e non soltanto, equivaleva all’emarginazione. Della sua omosessualità si seppe in seguito a un episodio rimasto famoso nella storia del pugilato: la morte del cubano Benny Kid Paret, che gli diede del «frocio» davanti a tutti alla vigilia di un match del 1962 e che poi, sul ring, venne massacrato dai colpi di Emile, la cui azione da invasato — innaturale per lui che non era un trucido picchiatore, ma anzi fondava su rapidità e precisione la sua tecnica pugilistica — suscitò sdegno e paura. Si parlò di vendetta. In realtà fu l’arbitro a non fermare in tempo il match. Griffith da quel giorno entrò nel limbo del detto/non detto, fino a diventare l’emblema fastidioso di un mondo dove il machismo è legge e la diversità un colpo imprevisto. Brutto dirlo, ma oggi più di prima, oltre e nonostante Emile.

(Claudio Colombo, Corsera, 24/7/2013)

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da La Repubblica, Emanuela Audisio, 17/11/2006

… Pudori e silenzi maschi, certe cose non si dicevano, soprattutto nel mondo della boxe. Era il ’62. Ufficialmente i gay in America erano tre: Allen Ginsberg, James Baldwin, Gore Vidal. Tutti e tre scrittori, razza intellettuale. Liberace aveva querelato chi lo accusava di omosessualità. Sul ring al centro della nuvola due uomini immigrati dalle isole caraibiche. Avevano giocato a basket insieme nei playground di Manhattan. Paret, 25 anni, era cubano, un tagliatore di canna da zucchero che si portava sempre dietro il figlio, Benny jr, sulle spalle. Aveva deciso: quello sarebbe stato il suo ultimo incontro. Griffith, 24 anni, veniva dalle Isole Vergini, e non aveva mai desiderato salire sul ring. Lavorava in una fabbrica di cappelli sulla 39sima Ovest e in una torrida estate aveva chiesto di potersi togliere la maglia. Il proprietario, Howie Albert, ex pugile, vide quello che c’ era sotto: vita sottile, spalle poderose. Anzi: «Un torace che fa per sei». Il giovane non era d’ indole aggressiva, a lui piaceva recapitare cappelli da Macy’ s, ma il suo fisico diceva un’ altra cosa: era nato per portare cazzotti in mezzo al ring. Albert lo trascinò in palestra, da Clancy, sulla 28esima strada. Due mesi dopo il ragazzo era in finale nei Golden Gloves. Emile era dolce, sorrideva sempre, però se qualcosa gli bruciava dentro era capace di reagire: ora aveva trovato dove mettere la rabbia. Non gli piaceva essere insultato: il padre se ne era andato presto da casa, la madre si era trasferita a fare la cuoca a Porto Rico, i fratelli erano sparsi qua e là, in adozione. La vita da bambino era già stata abbastanza dura, tanto da fargli desiderare di essere accettato all’ orfanotrofio di Saint Thomas, meglio lì che da zia Blanche che lo puniva duramente ogni volta che sprecava l’ acqua. Con i soldi dei combattimenti Emile compra casa al Queens e riunisce la famiglia. Un campione, ma anche una personalità infantile: cerca rifugio nelle braccia degli arbitri, quando si allena compra cento dollari di caramelle che regala ai ragazzi, si addormenta con il piffero in bocca. Dolce, troppo dolce. In palestra si sussurra, anzi si tirano le conclusioni: quella vocina così stridula, quei canti alla domenica mattina nella chiesa missionaria di Saint James, quei pantaloncini attillati che fasciano le gambe magre, quella passione per i cappelli da donna. Non è roba da pugili. E poi quei maschi latini che lo seguono sempre, quei ragazzini a cui presta la macchina. No, non può essere. Uno che tira cazzotti, che combatte per il ko. Non si può essere omosessuali e campioni di boxe. L’ allenatore Bob Jackson: «C’ era un codice, se ne parlava con discrezione tra di noi, ma non in pubblico». Dodicesima ripresa. Griffith sorprende Paret con un destro corto. La sensazione è elettrica, un dolore da cortocircuito. Benny finisce all’ angolo, viene scortecciato dai pugni, ha la faccia che è un cratere, sangue sulla guancia, gli occhi sono deformati. La testa e le spalle crollano giù, senza difesa. Emile spara uppercut a ripetizione, da tornitore automatico: frocio a chi? La sua è una furia meccanica, il cranio di Paret fa tic-toc, sbatte da destra e sinistra, rimbalza. Dov’ è l’ arbitro? Ruby Goldestein fa i suoi conti: sa che Griffith finora non ha mai ammazzato nessuno, che se fermerà il match tra gli ispanici scoppierà una rissa. Lascia fare, non è il primo regolamento di conti sul ring. In sei secondi Paret para con la testa diciotto pugni, poi ne arrivano altri ventinove, sventole che staccano il cervello. Benny non schiva niente, non può più rispondere: ha gli occhi chiusi, gli esce sangue dal naso e dalle guance, scivola a terra. La testa pare esplodere in mille pezzi. L’ arbitro ferma Griffith. C’ è silenzio sul ring. Si sente solo la voce di Emile: «Sono contento di essere tornato in cima al mondo». Più in là un giornalista commenta: «Abbiamo appena assistito a un delitto gay». Paret lascia in barella: è in coma. Sulla stampa l’ insulto di Paret, faggot, «frocio», scompare. Il direttore del New York Times la traduce con «anti-uomo». Emile cerca di raggiungere la stanza di Benny all’ ospedale, non ce la fa, esce per strada, lo insultano. Paret muore dieci giorni dopo. Tante le cause del decesso: l’ esitazione dell’ arbitro, la scarsa prevenzione prima del match, il cinismo del manager di Benny, Manuel Alfaro, che non dà ascolto al pugile che chiede un rinvio, la corteccia cerebrale squassata da Griffith. È un omicidio a sfondo sessuale, ma sul ring è legale. Emile ha paura di dormire, non vuole più stare solo. Le ore della notte gli sembrano asfissianti. Da Cuba arrivano brutte lettere: minacce e disprezzo, sai che ti facciamo? Nelson Rockefeller, governatore dello Stato di New York, ordina un’ inchiesta. Griffith torna sul ring sedici settimane dopo contro Ralph Dupas. Vince in quindici round, ma esita. «Non voglio più fare male». Cerca di farsi benvolere nel quartiere, è sempre più eccentrico: Lincoln colorate, vestiti sgargianti, doppiopetto, bottoni di madreperla. Si sa, ai caraibici piacciono i colori, sono gli anni Sessanta: «Love and peace, and let the sunshine». Sei gay? Gli chiedono. Lui risponde: «Non sono il frocio di nessuno». Che razza di risposta è? «Che altro potevo dire: ero nero, pugile, ambiguo. A quei tempi per l’ America eravamo tutti mostri, la polizia ci picchiava per strada, spararono a Malcom X e a Luther King». A Emile piace ballare: merengue, mambo. Un pugile che parla dei cappelli di moda, discetta su quelli che porta Jackie Kennedy, su stile e frivolezze. La domanda è sempre quella: può un uomo che ha ucciso a pugni il suo avversario non essere un uomo? Uno strano sin dall’ inizio, effeminato nel cuore. Quando nel ’63 Hurricane Carter (quello della canzone di Dylan) lo sbatte ko al primo round, lui giulivo, augura ai cronisti: «Buon Natale». Ma Emile, dopo Paret, sul ring ha perso il fuoco. È un fantasma, non colpisce, non esplode. Torna in sé solo la notte. Quando cerca la libertà nei bar sull’ Ottava strada o al Greenwich Village. Non si nasconde, non usa altri nomi, spesso non si cambia nemmeno. Fila dal ring al locale. In calzoncini. È illegale nello stato di New York ballare avvinghiati, se l’ altro non è una donna. Quando si riaccendono le luci, i due corpi si staccano con sensualità, c’ è sorpresa e mormorio: ma quello non è il pugile campione del mondo? Però nessuno fiata, è uno di loro, va protetto. Per la medicina il gay è un malato, per la legge un criminale, per la società un reietto. La sera non intacca il lavoro della mattina in palestra. Emile è ancora capace di correre cinque miglia sulle colline di Catskill, è ancora brillante come pugile: batte Louis Rodriguez, vince il mondiale welter, sale di categoria, strappa il titolo dei medi a Dick Tiger, lo difende due volte contro Joey Archer, lo perde contro Nino Benvenuti, lo riprende, lo riperde. Per colpa dei giudici e del razzismo, dice lui. «Il clan di Nino al primo incontro mi ha oltraggiato, continuava a darmi del negro. Però con Benvenuti ho avuto un buon rapporto, sono anche padrino di suo figlio». Tra poco, nell’ aprile 2007, saranno quarant’ anni dalla saga di quei tre match che fecero impazzire l’ Italia per la boxe. Nel ’71 Emile va a Saint Thomas. Entra in un bar che si chiama Bamboshay. Vede un corpo che si dimena a terra, in pantaloncini blu. I due ballano dalle undici alle quattro del mattino. La ragazza ha 24 anni, si chiama Sadie Donastorg. Quando la riaccompagna a casa lui le chiede: vuoi sposarmi? «Ma se non mi conosci nemmeno». Due mesi dopo, il matrimonio. Lui adotta la figlia di lei, Christine. Chissà, forse le voci sono sbagliate. Emile combatte nel mondo: Buenos Aires, Los Angeles, Parigi. Sadie resta a casa, sola. Due anni dopo il divorzio. Magari hanno molto ballato, per il resto hanno consumato poco. Sadie: «Mi diceva che i rapporti sessuali intralciavano il suo lavoro, ma siamo rimasti amici». Tutti sono amici di Emile: scherza, sorride, ride, gioca, firma autografi, ringrazia. Un tipo gentile, pronto a baciarvi. Nel ’77 Clancy lo chiama e gli dice che basta così: ha 39 anni, 112 incontri alle spalle, ha lottato contro Monzon, Napoles, Minter. È il re del Madison Square Garden con 26 match, ha un altro record: 51 round mondiali più di Sugar Ray Robinson e 69 più di Ali. È stato cinque volte campione del mondo. Lo sport toglie e dà. Emile in visita nel riformatorio di Secaucus trova Louis Rodrigo, un ragazzo di 16 anni, appassionato di pugilato, che ha perso il padre e lavora lì. Griffith lo adotta, Louis va a vivere da lui e se ne prende cura. Emile non ha molti mezzi, se la cava allenando a Brooklyn, da Gleason’ s, una palestra famosa (fotografata anche nel libro Combat), di sera lavora in un pub nel New Jersey. Allena anche l’ attore Wesley Snipes per il film Streets of Gold. Nel ’92 torna da una trasferta in Australia e finisce la sera da Hombre, un bar gay nel West Side, sulla 41esima strada. Però si sente strano, debole, forse è stato drogato. All’ uscita una banda lo aggredisce, lo picchia, lo deruba e lo lascia mezzo morto sul marciapiede. «Mi tiravano calci con gli stivali come ad un cane, mi colpivano con le mazze da baseball». Emile è conciato male, perde un rene, va in dialisi, rimedia un’ infezione al midollo. Due mesi in ospedale, e nessuna indagine. A tutti sembra una punizione sessuale, una lezione alla Pasolini. Emile Griffith oggi ha 68 anni. Soffre di demenza, spesso si addormenta: «Colpa delle pillole». Gli piace sempre bere, scherzare. Si vede che è un ex pugile: al collo porta una catena con il guantone d’ oro, alle dita anelli con la cintura mondiale, in testa ha un basco di pelle nera. Vive a Hempstead, Long Island, con Louis, che lo assiste. Le pensione è di appena 300 dollari. Non ricorda, né vuole. Però dice: «Nessuno ha il diritto di offendermi, io davanti a certe parole reagisco da bestia. Sì, vado ancora nei bar gay, conosco anche tutti i locali che hanno chiuso: e allora? Io lì mi diverto e mi rilasso». Gli fanno incontrare il figlio di Benny Paret a Central Park, senza dirgli niente. Lui lo guarda e gli sussurra: «Somigli a tuo padre». Tutto qui, quarantaquattro anni dopo. Troppe nebbie, e colpi invisibili che fanno paura come le colpe. Emile saluta. «Io non ce l’ ho fatta. La boxe è vera, ma non sopporta falsi uomini». Tocca il sedere al cameriere e ride.
EMANUELA AUDISIO

Emile Griffith è presente in queste opere:

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