Derek Jarman

Derek Jarman
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  • Data di nascita 31/01/1942
  • Data di morte 19/02/1994
  • Luogo di nascita Londra/UK
  • Luogo di morte England/Londra/UK - per complicazioni da Aids

Derek Jarman

Derek Jarman nasce a Northwood nel Middlesex il 31 gennaio 1942. Pittore, regista, scenografo, scrittore e giardiniere. Questo è Derek Jarman. “Regista della libertà”, “sovversivo maestro dell’arte”, “pittore della cinepresa”, “poeta del cinema”, “santo” e “martire”. A diversi anni dalla sua morte l’interesse per la sua opera non accenna a diminuire. Da figura di culto Jarman è assurto nell’Olimpo degli Autori anglosassoni. Insieme a Terence Davies, Bill Douglas, e Chris Petit, Jarman è una delle poche voci del cinema indipendente alternativo ad emergere negli anni Settanta e Ottanta. Isolato, condannato a rimanere periferico e underground, costretto a recitare in vita la parte del regista maledetto, (“fuorilegge dello spettacolo” come lo battezza l'”Europeo”), Jarman viene riscattato dalla cronaca che fa di lui un personaggio politico, un attivista per i diritti degli omosessuali, un portavoce della lotta contro l’Aids e uno strenuo innovatore nel panorama stagnante delle arti. “È solo oggi verso la fine della mia carriera che vengo riconosciuto ed accettato – forse è troppo tardi – non è strano?” (Derek Jarman)- Jarman arriva al cinema attraverso la pittura e il lavoro di scenografo, prima teatrale e poi cinematografico, con Ken Russel. La reciproca contaminazione delle diverse pratiche artistiche perseguite da Jarman rende impossibile stabilirne una gerarchia. Nonostante le oggettive difficoltà sperimentate dal regista nel trovare i finanziamenti necessari alle sue produzioni, la pittura non diventa per lui né un ripiego né un rifugio. “Per me il cinema e la pittura partono dalla stessa esigenza di libertà di fronte ad uno spazio bianco da riempire”. Il lavoro sull’immagine, l’innesto del video sulla pellicola, la mescolanza di stili ed epoche diverse nelle scenografie e l’incoerenza temporale del racconto filmico, dimostrano la duttilità di chi è capace di passare da un medium all’altro anche quando ne mantiene gli stessi contenuti. La gestazione laboriosa e prolungata dei suoi diversi progetti (sei anni per “Caravaggio”) contraddice l’immagine di un Jarman regista improvvisatore. Basta leggere le sue sceneggiature per accorgersi del meticoloso processo di scrittura, e della limpidezza con la quale il regista formula il suo pensiero narrativo. Il senso di ogni singola scena è chiarificato dalla presenza di un titolo corrispondente mentre i disegni, che arricchiscono così spesso le copie personali delle sue sceneggiature, valgono come precise notazioni visive. Soltanto con “Angelic Conversation”, “The last of England” e “The Garden” si può parlare, anche se solo relativamente, di improvvisazione. “Ho dato il minimo di direttive possibili. La maggior parte delle scene si sono dirette da sé”. Se è pur vero che nel caso di questi film non esiste una sceneggiatura vera e propria, la mole di appunti e il cumulo di materiale-base indicano la direzione del film e rivelano il disegno del prodotto finale, se non nella sua forma almeno nei suoi significati. Sebbene le sceneggiature abbiano un carattere proteiforme non per questo sono rigidamente strutturate. L’impalcatura narrativa si regge spesso su spunti diversi mutuati dalle arti o dalla religione e dell’alchimia (una poesia anglosassone e i vangeli in “The Garden”; la partitura del “War Requiem” di Britten e un quadro preraffaellita in “The Last of England”). Questi diventano, in alcuni casi, semplici alibi, che giustificano l’introduzione di tematiche apparentemente aliene in un contesto con il quale non dovrebbero avere alcun rapporto (l’alchimia nella Londra punk di “Jubilee”). Le innovazioni linguistiche di Jarman riposano sull’eterogeneità degli ingrdienti. Il rifiuto dei generi, delle convenzioni narrative e soprattutto della tradizione del cinema inglese – ossidatosi su sterili adattamenti dei classici della letteratura, da Jane Austen a Dickens, o prostituitosi alla logica del mercato ( i film di Joff, di Hudson e della scuderia di David Puttnam) – porta Jarman a rifondare la nozione di autore quale garante del discorso. La sua autorialità non è però la dispotica manifestazione di uno sterile ed opprimente egocentrismo, bensì l’onesta articolazione di un discorso che per essere convalidato deve essere fatto in prima persona. Alla luce delle misure discriminatorie del governo conservatore inglese (la famigerata clausola 28), l’omosessualità del regista e la sua sieropositività danno legittimità e pregnanza alle sue interpretazioni personalizzate di eventi e personaggi (come Edoardo II) assunti a partigiani della causa. Nelle opere di Jarman la narrazione è spesso “presa in ostaggio” da vicende personali (il suo coinvolgimento con gli interpreti del caso di “The Angelic Conversation”) o da accadimenti estemporanei (l’irruzione del gruppo attivista OutRage! Sul set di “Edoardo II”) concertati in modo che la loro collusione con il soggetto di fondo produca nuove sfumature di senso. Tra le diverse tematiche si individuano: il processo creativo e il ruolo dell’artista come catalizzatore di impulsi “proibiti”, il disagio sociale di una nazione imperniata sull’individualismo, la messa in discussione di tutti i valori morali dati come assoluti, il perverso potere dei mass media, la rilettura delle mitologie storiche, e la distruzione del paesaggio. Tra questi emerge l’omosessualità che non è mai una semplice costante, quanto piuttosto un’invariante profonda e costitutiva della trama narrativa. Stranamente nei super 8 questo elemento è solo poco più che una componente secondaria, mantenuta a livello di sottotesto e appena ravvisabile in certi accenti iconografici. L’articolazione del “pensiero omosessuale” di Jarman avviene nei lungometraggi attraverso figure e personaggi storici (“Sebastiane”, “Caravaggio”, “Edoardo II”), sequenze allegoriche ed argomentazioni politiche dirette o satiriche (“Sod’em’ Pansy”). Agli inizi degli anni Ottanta Jarman riunisce attorno a sé un gruppo di giovani di talento, John Maybury, Cerith Wyn Evans e Richard Heslop, rappresentanti di una nuova generazione di studenti d’arte, che interpretano il cinema amatoriale come una forma di guerriglia. Lo stile onorico-contemplativo di Jarman si indirizza verso un’inedita aggressività volta a scavare la realtà urbana della capitale. In “The queen is dead” (1986) le riprese frenetiche e il vorticoso montaggio di Heslop, Maybury e Wyn-Evans illustrano la rabbia giovanile e l’opposizione al clima pesantemente reazionario diffuso nel paese. Fatta eccezione per Laurence Olivier (“War Requiem”) Jarman non lavora mai con nomi di spicco, preferendo dirigere un cast di attori alle prime armi o amici. E’ proprio la presenza di amici e collaboratori a dare una certa continuità all’opera del regista. Poco prima di morire, e ormai inchiodato al letto di un ospedale, Jarman completa “Glitterburg”, l’ideale corollario di “Blue”, il suo testamento spirituale. animanera Derek Jarman (1942-1994) ha sconvolto il panorama del cinema britannico e l’intera Inghilterra degli ultimi decenni con il suo effervescente e innovativo spirito visionario; scandalizzando, non solo per il gusto così squisitamente sovversivo dei suoi film, per la potenza evocativa della sua poesia, per i suoi graffianti messaggi, che con inimitabile purezza rivendicavano con forza l’orgoglio e il diritto di essere omosessuale, ma anche per il coraggio con cui ha parlato pubblicamente della sua sieropositività: una scelta difficile ma necessaria per far aprire gli occhi a una generazione che stava crescendo all’ombra dell’Aids armata solo di pregiudizi e inconsapevolezza. Attraverso i colori delle sue provocazioni ha organizzato la sua rivoluzione. Non si è mai fermato, contraddistinto da una vitalità sorprendente e disperata (parafrasando le parole di Pasolini, che Jarman definisce l’ennesima “vittima sacrificale dell’eterosocietà”), anche quando la morte, sempre più inesorabilmente, iniziava a impregnare le tele sulle quali dipingeva. Il virus, come un ospite inatteso, è arrivato a trasformare la sua vita, le sue immagini, i suoi colori, privandolo gradatamente della vista per rendengli un mondo di bagliori indistinti. Il suo ultimo film, uno schermo blu monocromo, immobile, senza immagini, solcato solo da ricordi, voci, rumori, diventa così la più drammatica, crudele ed efficace metafora di una vita ridotta a un gelido universo blu velato da ombre. Un lungo, doloroso itinerario di preparazione a quella morte, ingiusta e impietosa, che non ha risparmiato di travolgere anche gli amici più cari, lasciandolo sempre più solo, “eremita nel deserto della sua malattia”, nel suo volontario esilio nel Kent. Accanto al suo desolato cottage a Dungeness, come in un arcano rituale per esorcizzare la morte, ha coraggiosamente costruito il suo giardino, un piccolo pezzo di paradiso privato, composto di fiori d’ogni tipo, insolite sculture e magici cerchi di pietre. A un passo da una centrale nucleare, su un’arida landa battuta dal vento, dove alla prima occhiata solo le erbe più resistenti avrebbero potuto attecchire, quel giardino è cresciuto, giorno dopo giorno, di pari passo con la malattia di Jarman. Una lotta comune contro la morte li avrebbe uniti per sempre. Dal 22 dicembre 1986, il giorno in cui gli veniva rivelata la sua sieropositività, il resto della sua vita è stato indelebilmente condizionato dall’Aids. Il virus è divenuto così il co-autore di tutte le sue paure e, come l’occhio invisibile di una telecamera, ha seguito ogni suo respiro. Jarman si è trovato ancora una volta in quella scomoda condizione “borderline” nella quale l’aveva relegato la “sana e irreprensibile” società inglese, che già dalla nascita lo aveva marchiato dell’imperdonabile “colpa” e della “vergogna” di essere omosessuale e, che ancora una volta, ora, lo ghettizzava come demone del sesso deviato, vittima di una malattia impronunciabile e scandalosa, limitando in modo ingiusto i suoi diritti di uomo. Eccentrico, eccessivo, visionario, sincero, Jarman ha creduto fino all’ultimo che i suoi film potessero cambiare la gente, e forse, più d’ogni altra cosa, ha cercato di vincere questa sfida, una vittoria che poteva minare il grigio conformismo di cui il mondo era vittima e creare quindi i presupposti per un futuro che, almeno, permettesse a ciascuno di rivendicare la libertà di vivere serenamente la propria sessualità, senza essere costretto a combattere per essere accettato. Con ogni suo nuovo film il cineasta britannico veniva a collocarsi in una posizione sempre più pericolosa per l’autoritarismo thatcheriano; rinnovava il suo rifiuto verso le regole proposte da una soffocante “eterosocietà” che preferiva non sentire nominare la parola omosessualità, e dove l’ignoranza e l’indifferenza uccidevano più dell’Aids. Jarman ha dato voce al silenzio. Schieratosi accanto al Movimento Omosessuale, è diventato il portabandiera di un’intera comunità in lotta. Le sue parole hanno assunto l’aspetto di un sempre più acceso e vibrante messaggio politico contro il falso egualitarismo. Di animo ribelle e rivoluzionario, dopo una giovinezza dedicata all’arte e alla pittura, Jarman è entrato nel mondo del cinema come scenografo per “I Diavoli” e “Messia selvaggio” di Ken Russel. Ma le doti di sofisticato filmaker si rivelano solo successivamente, quando, presa in mano una piccola telecamera Super 8, può fare esplodere il suo gusto estetico per le immagini. Dopo una serie di cortometraggi dal taglio sperimentale si è cimentato nella sua prima grande opera registica, il lungometraggio “Sebastiane” (1975), interamente recitato in latino. Il film, forse un po’ grezzo, ma di grande impatto per l’epoca, fu una vera provocazione, soprattutto per la sua gioiosa componente omoerotica. I lavori seguenti confermano la caratteristica dissacrante dell’estetica jarmaniana. Con “Jubilee”(1978), Jarman ci regala il profilo di una Gran Bretagna post-punk dove regna solo la violenza e l’anarchia, una satira feroce e un irriverente “omaggio” alla Corona inglese. Seguono poi “The Tempest”, (1979), versione riveduta dell’opera shakespeariana, “Imagining October (1984), parodia delle manipolazioni dei sistemi narrativi di finzione portata alle estreme conseguenze, e “The Angelic Conversation” (1985), dove la lettura fuori campo di 14 sonetti di Shakespeare incornicia in tono dolce e allusivo malinconici sogni di desiderio, rafforzati da un’ossessiva lentezza delle immagini, quasi a imprigionare lo scorrere del tempo . Ma è con “Caravaggio” (1986), una elaborata rappresentazione in chiave omosessuale della figura del celebre pittore del rinascimento italiano, che il significativo talento artistico di Jarman comincia a essere notato a livello internazionale. Un anno dopo, con “The Last Of England” (1987), rinnova il suo discorso di tagliente denuncia alla crudeltà e all’ingiustizia dell’Inghilterra tatcheriana, dipingendo in veste onirica e visionaria, quasi un avvertimento profetico, la fine di in una Nazione senza più prospettive. Successivamente si ispira all’opera di Benjamin Britten per la realizzazione di “War Requiem” (1988), sofferto grido di dolore contro le guerre, intriso di richiami e allusioni religiose. Le stesse revisionate simbologie sacre che ritornano poi nel contemplativo e spiritualmente visionario “The Garden” (1990), un omaggio al suo prezioso giardino nel Kent, scatenando, ancora una volta, lo sdegno del pubblico conservatore. La sua inarrestabile, seppur sostenuta da scarsi finanziamenti, produzione cinematografica prosegue con “Edoardo II” (1991). Manifesto di ribellione verso le convenzioni e di ennesima rivendicazione dell’orgoglio omossesuale, il film narra, in una visuale quasi post-moderna, la passione irrefrenabile e proibita del sovrano inglese, un amore che decreterà inevitabilmente e in modo tragico la sua fine. Nel suo ultimo anno di vita, con “Wittgenstein” (1993), Jarman mette in scena “a modo suo” la vita del grande filosofo, come un’esplosione di colori su una tavolozza nera, firmando un vero capolavoro di rara semplicità, raffinata sensibilità e profonda riflessione. Infine, guidato dall’ammirazione per la pittura e per le idee di Yves Klein, realizza “Blue” (1993), il suo eloquente, ironico e sofferto testamento spirituale: uno schermo blu monocromo, solcato e graffiato da voci, ricordi, rumori, poesia. “Glitterbug” uscito postumo, rappresenta l’ultima raccolta di immagini jarmaniane, un collage di materiale inedito girato dal regista nel corso della sua crescita umana e cinematografica. Il progetto, scaturito dalla fantasia del grande artista inglese e che rischiava di rimanere incompiuto, è stato portato a termine dai suoi collaboratori più stretti, gli onnipresenti, fedeli amici che lo hanno seguito e sostenuto da sempre in ogni fase del suo lavoro e si avvale dell’evocativo contributo sonoro originale di Brian Eno. Ultimi tasselli che fanno da cornice e tentano di completare il complesso ed eclettico mosaico di messaggi lasciatoci da Jarman sono due videointerviste: “L’amore vincitore”, premiato al Festival di Torino Giovani 1993, breve e sentito omaggio di Roberto Nanni, nel quale trapela, con un senso di commozione, l’inesauribile voglia di vivere e lottare di Jarman, già visibilmente segnato dalla malattia, e l’austero e più freddo “There we are, John”, documento sconvolgente e crudelmente reale sugli ultimi mesi di vita del regista. Il genio poetico di Jarman si riversa parallamente anche nei suoi diari. “Dancing Ledge”, “Modern Nature”, “At your own risk”, “Chroma” e il postumo “Smiling in slow motion”, sono preziosi distillati delle sue esperienze, lucidi e puntuali resoconti degli anni vissuti, pagine in cui rivivono le nostalgie, gli amori, la dedizione al suo giardino e la contemplazione della natura, i colori e il fascino della propria terra, alternati alla amara cronaca dell’incurabile progredire della sua malattia. E sempre senza mai tradire quella complessa alchimia di ironia e dramma che ha contraddistinto e reso indimenticabile il suo nome. (Scheda di Cristina Pajalunga e Michele Masiero da www.animanera.net)

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