La Dune

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La Dune

Stupenda opera prima del regista israeliano Yossi Aviram (che traduce in fiction la tematica gay del suo doc “Paris Return”), premiata all’ Haifa Film Festival e presentata con grande successo al recente Bergamo Film Meeting. Film lento, con pochissimi dialoghi (ma parlano moltissimo i gesti e gli sguardi), bellissimi paesaggi e grandissimi attori. Sottovalutato dalla distribuzione, ormai interessata solo al cinema commerciale, il film circola quasi solo nei festival, sia generalisti che a tematica, dove può sicuramente trovare il pubblico giusto, attento più alla qualità che agli effetti speciali. La tematica gay non è la principale, ma è quella più facilmente percepibile dallo spettatore, che si trova davanti ad una consolidata coppia gay, oggi anziana, formata da due persone assai diverse ma sempre capaci di comprendersi e sostenersi a vicenda. Bellissimo lo sguardo del regista alle loro problematiche, capace di presentarci l’omosessualità e l’amore di due uomini anziani con una normalità, un’attenzione ed una sensibilità assai rare anche nel cinema indipendente. Tra i due uomini ci sono differenze di personalità, disaccordi e discussioni, ma sicuramente Ruben, il protagonista, non potrebbe fronteggiare il suo dramma interiore ed i ricordi di un passato che non ha potuto controllare, senza l’aiuto profondo e sincero di Paul, il suo compagno di una vita.
Il film racconta due storie separate che pian piano si uniscono svelandoci la fondamentale connessione.
Hanoch ( Lior Ashkenazi ) è un quarantenne sposato che gestisce un negozio di riparazione bici in una cittadina ai bordi del deserto israeliano. Passa il suo tempo libero a giocare a scacchi con l’amico Fogel. Quando la moglie scopre di essere incinta per Hanoch diventa un problema. Non si sente ancora in grado di diventare padre, forse anche perché lui non ha mai avuto un padre. Decide quindi di scappare. Nel frattempo a Parigi seguiamo la vicenda di Ruben ( Niels Arestrup ), un anziano investigatore che sente ormai la pesantezza del suo lavoro e vorrebbe ritirarsi. Vive da tempo col suo compagno Paul e il loro amato cane. Il suo incarico è quello di rintracciare le persone scomparse e lo vediamo che è riuscito a stanare un famoso scrittore, Moreau ( Mathieu Amalric ), scomparso da tre settimane e rifugiatosi in un hotel. Ruben è un suo ammiratore e pensa di essere riuscito a convincerlo a ritornare a casa, ma mentre attende che raccolga le sue cose, Moreau si suicida gettandosi dalla finestra. Ruben rimane scioccato e depresso, insieme al suo compagno Paul pensa che sia giunto il momento per loro di abbandonare tutto e cambiare vita.
Improvvisamente ritroviamo Hanoch che di nascosto pedina Ruben poi parte in bicicletta da Parigi verso le coste del sudovest delle Lande. Una donna lo troverà quasi incosciente e muto sulla spiaggia, senza nessun documento, con in tasca solo un articolo sulla morte di Moreau. Viene portato in ospedale e Ruben è incaricato di indagare sul mistero di questo sconosciuto…
Il regista Aviram, che ha incontrato il pubblico al festival di Bergamo, alla domanda sulla rappresentazione dell’omosessualità nel film, caratterizzata da grande sensibilità e umiltà, ha risposto: “Sono orgoglioso di averlo fatto così naturale e reale perché mi sono ispirato a persone vere. L’omosessualità si vede ma non è una questione in primo piano. Mi piace l’approccio umano – non che i film militanti siano brutti”.

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CRITICA:

Yossi Aviram ci propone un film particolarmente misurato e composto, dalla sceneggiatura contenuta, dalla fotografia sommessamente elegante. Grazie a questi tratti, e a interpreti altrettanto controllati ed efficaci, il regista ne fa un film di eccezionale sensibilità. E perdipiù non noioso, in grado di agganciare lo spettatore dall’inizio – la splendida immagine assolata di una strada nel deserto dove un puntino nero si avvicina e si fa uomo in bicicletta, passa, e poi ci lascia di nuovo nel silenzio e nella solitudine del deserto israeliano – fino alla fine.
L’uomo è Hanoch, passa il giorno di riposo da solo in bicicletta e si siede a guardare il paesaggio deserto per ore; al rientro veniamo a sapere che la sua compagna è incinta e lui ammette di non sentirsi pronto per divenire padre. Aborto, separazione. Hanoch dorme nella sua officina di ciclista, interrompe la sua routine di giocatore di scacchi con il vecchio Fogel e decide di partire. Titoli di testa – solo ora – e in poche scene siamo già alla fine di una storia d’amore e all’inizio di un viaggio. La narrazione dopo i titoli riprende con tutt’altro paesaggio in tutt’altro contesto: un’ispettore di polizia – di lì a poco sapremo che è a pochi mesi dalla pensione- scova in un alberghetto un noto scrittore scomparso da tre settimane (il bravo Mathieu Amalric).
L’uomo è provato, non vuole farsi ricondurre in famiglia, tra lui e l’ispettore Vardi c’è uno scambio pacato e alla fine accetta di pranzare con lui. Invece si getta dalla finestra. L’ispettore rientra a Parigi fortemente scosso dalla vicenda e comprendiamo che questa acuisce per lui un periodo di stanchezza e depressione. Ad attenderlo a casa c’è un compagno, Paolo, ed è chiaro che sono da tempo una solida coppia. L’ispettore vorrebbe ritirarsi prima del tempo, il suo superiore lo invita piuttosto a prendersi qualche giorno di vacanza per pensarci su. Altro antefatto, che chiude forse la carriera del poliziotto e inizia qualcosa d’altro. Il regista ha pronto un altro pacato colpo di scena: Hanoch ricompare a Parigi e inizia a pedinare l’ispettore, poi si reca nelle Lande in bicicletta e viene ritrovato sulla spiaggia senza documenti e mezzo morto. In ospedale, una volta ripresosi, eviterà di parlare. L’ispettore Vardi viene chiamato a investigare sul caso. Un po’ poliziesco, un po’ dramma, il film ci conduce per mano attraverso le sofferte condizioni di questi due uomini, alle prese con traumi profondi non ancora ricomposti.
Il tema delle scelte di vita e delle loro conseguenze, del tempo che passa (anche il cane dell’ispettore mostra i segni della vecchiaia), degli affetti che durano, degli affetti necessari, vengono affrontati senza strappi né acuti, senza troppe parole. Fino a una conclusione che distende la narrazione che ha proceduto con sapienti ellissi e allo stesso tempo ha fornito via via allo spettatore gli elementi necessari a comprendere. Thumbs up, pollice recto insomma, per regia e sceneggiatura di Yossi Aviram, al suo primo lungometraggio, per tutti gli interpreti e in particolare per i silenzi eloquenti di Lior Askenazi.

(Paola Suardi, Bergamonews.it)

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Yossi Aviram makes an uncommonly sensitive debut with this beautifully understated drama about a father and his long-estranged son.
An uncommon film of great sensitivity, “The Dune” delivers a beautifully understated portrayal of the consequences of choosing a particular path at life’s crossroads. First-time feature helmer Yossi Aviram proves exceptionally gifted with his stellar cast, whose nuanced performances find gold in the spare script about an older gay police officer in France whose long-estranged son in Israel comes to make a connection. Perceptively commenting on the passage of time, the film is the kind of sleeper that appears out of nowhere yet makes an impact; it won best debut at the Haifa Film Festival and could see limited arthouse play.
Although gay-themed, with a rare portrayal of an older same-sex couple at its heart, there’s no reason why the pic need be relegated to the queer circuit, although such showcases will likely boost its profile. Equally key to the film’s appeal, especially for mature audiences, is the way it refuses to marginalize people 60 and older, giving them the kind of rich inner lives usually denied characters of a certain age.
Fortysomething Hanoch (Lior Ashkenazi) owns a bike repair shop in a desert town in Israel, filling his time playing chess with friend Fogel (Moni Moshonov). When wife Yael (Dana Adini, making an impression in a small role) discovers she’s pregnant, Hanoch tells her he’s not prepared to be a father, and she walks out.
In France, missing-persons investigator Ruben (Niels Arestrup) tracks down famed author Moreau (Mathieu Amalric), who disappeared three weeks earlier. The writer’s been holed up in a hotel, wanting to keep the world at bay; he and Ruben, an admirer, exchange respectful words in a terrific scene, but when the detective steps out to let Moreau get his things, the author jumps out the window.
Back in Paris, Ruben feels it’s time to retire. Moreau’s death has shaken him up, he’s depressed, and he and life partner Paolo (Guy Marchand) need to move apartments. Even Ruben’s dog, his constant companion, is showing his age.
Meanwhile, Hanoch appears in France, discreetly trailing Ruben and then heading to the coast in the southwest Landes region. There one morning, he’s found on the beach by Fabienne (Emma de Caunes), mute and without ID; the only item in his pocket is an article about Moreau’s suicide. Hanoch is taken to the hospital and Ruben is called to down to investigate, but the silent man’s mystery is difficult to crack.
Aviram keeps dialogue to a minimum, not in a perverse way, but because he’s aware that physicality and mood convey a richness, especially with this cast, more natural and profound than could be delivered in conversation. Exposition is more or less eliminated, and the connection between the Israeli and French stories isn’t immediately clear, but this is elliptical filmmaking at its best, and every character exudes a complex interiority as well as likability.
Central to “The Dune” is the solidity of Ruben and Paolo’s relationship; though they are very different personalities, and not without their occasional disagreements, the unquestioned, quietly demonstrable depth of their partnership provides Ruben with the solidity he needs to get through this difficult time. The pic is dedicated to Pierluigi and Reuven, the subjects of Aviram’s docu “Paris Returns,” and more than likely the inspiration for the helmer’s fiction debut.
Cast against type, Arestrup makes a depressed, tired old man into a noble and tormented figure, comfortable in himself and his love, yet haunted by a past he couldn’t control. Always a canny performer, he captures the meaning between the words, giving this cultured, empathic man an accessible majesty. More than half of Ashkenazi’s role is played sans dialogue, yet the thesp’s silent gaze calmly expresses the sadness and yearning that Hanoch is only just now confusedly addressing. Marchand, at times exasperated yet unswervingly devoted, and de Caunes, independent and hesitantly optimistic, are equally fine.
This is a standout year for d.p. Antoine Heberle, who follows sterling work in “Grigris” with the quiet elegance his lensing displays here. Whether via sun-filled exteriors or the more controlled lighting effects inside, his visuals provide a clear, simplified richness, as respectful of all the characters as Aviram’s superb screenplay.

(Jay Weissberg, Variety)

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