I like you... I like you very much

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I like you... I like you very much

Una coppia di ragazzi gay giapponesi , Yu e Shin, compagni di college, dividono lo stesso appartamento e sono amanti, anche se la loro relazione è piuttosto burrascosa. Un mattino Yu nota un bel giovane alla stazione che, come lui, stà aspettando lo stesso treno e se ne invaghisce al punto che continua a ripetere in continuazione il medesimo ritornello “I like you…I like you very much” a se stesso e a quanti incontra, che lo prendono per un pazzo. Il gioco si ripete ogni mattina e finalmente trova il coraggio di pedinare il giovane che, accorgendosi di essere seguito, affronta Yu e gli chiede spiegazioni. Yu balbetta la frase che da qualche giorno è diventata la sua ossessione, ma il ragazzo è etero e lo respinge finchè, stanco di questa presenza e per porre fine alla situazione, decide di accontentarlo. Yu confessa la propria infedeltà a Shin, il quale reagisce cercando a sua vollta consolazione con un amico… (SPOILER) ma il legame che lo lega a Yu è più forte di qualsiasi tradimento e i due finiscono per restare insieme, nonostante la mente di Yu sia sempre occupata dal pensiero dell’altro… (F.T.)

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Un commento

  1. Film sincero e disperato. Spacciato come un pinku gay, in realtà è un film che sa trasmettere forti e disperate emozioni e che chiude il cerchio con un concitato e poetico finale. Da non perdere.

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CRITICA:

Oki Hiroyuki has remained at the margins of Japan’s gay cinema, making personal — even solipsistic — films on low budgets and grainy stock. While the scenario of Oki’s I Like You isn’t much — the relationship of young lovers Yu and Shin is jeopardized by the passing temptations of strangers and ex-lovers — the film’s anguished, murky camerawork and elliptical narrative work to obscure a paper napkin screenplay with a front of avant-gardism. Oki’s directorial style too much resembles a film school graduation thesis, with arbitrary jump cuts, seemingly improvised dialogue, and a jiggling cinema verite camera passing for experimentalism. I suppose the handheld camera’s mind-numbing, over-caffeinated jitters are meant to suggest the sexual turmoil percolating beneath the façade of the daily lives of characters who desperately fill their existential holes with the material gratification of sex — a pretty bourgeois idea for an “underground” film.
I Like You’s shadowy sex scenes are a muddle of lifeless realism and private intensity, combining organic, naturally recorded sounds with looped panting. In a Japan where the penis is (more or less) verboten, the sex never dares to cross the threshold of hardcore; as is frequently the case with Japanese erotica, however, neurotic censorships only facilitate fetishes that would not otherwise exist. Most conspicuously, Shin’s jockstrap serves not only the pragmatic function of camouflaging genital taboos, but becomes a nearly metaphysical totem that crystallizes the longings of those who gaze upon it. Though at times excruciatingly tedious, the film’s monotonous seaside atmosphere lingers in the memory, and the tedium does eventually blur into a kind of melancholic relaxation, even if the undernourished characters who populate this milieu remain as alien to us as they are to each other. (Andrew Grossman, www.brightlightsfilm.com)

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